Ionesco è alla ricerca del nucleo di autenticità dell’essere umano e si dispera sul fatto che esso possa essere facilmente perduto. Egli osserva la cultura del suo tempo -e di ogni tempo-; gli elementi di progresso che, tuttavia, possono inibire il percorso vero l’autenticità, se diventano auoreferenziali e comportare un regresso nella civiltà. Ed il linguaggio è quel timbro costruito dalla cultura, che la contiene e che molto spesso tende a schiacciare l’individuale, a vantaggio di una mente “collettiva”, convenzionale, se non vi è lo sforzo di di riappropriarsi della propria identità. Egli ridicolizza i timori dei suoi personaggi, così espressi nella laconica o verbosa, comunque sterile, comunicazione di frasi ripetitive. Una ecolalia stereotipata delle emozioni, dove il mittente è specchio del ricevente. Meraviglia, sospetto, panico, dolore, …tutti sentimenti senza anima, quando partecipati all’altro senza una reale empatia; ma repertorio codificato, non interpretato. I luoghi, con gli accadimenti e le persone non sono “pensati”, ma riprodotti in una comunicazione che sembra un meccanico passaggio di fotografie tra i presenti, piuttosto un “non pensiero”. Persino le peculiari caratteristiche dei personaggi –che pure esistono- appaiono schiacciate in stereotipi che nulla lasciano all’imprevisto ed alla creatività.Tutto perfettamente binario, potrebbe dire Ionesco, e perdutamente scomparso nella sua dimensione analogica.
L’unico potenziale “imprevedibile” che potrebbe dare una prospettiva differente alle comunicazione dei personaggi -che vivono come vignette e nuvolette riempiti in involucri di uomo- è appunto il “rinoceronte”; elemento tanto dirompente ed assurdo, che però rischia di perdere anche quest’ultima caratteristica, quando considerato nei capziosi ragionamenti dei personaggi. Sezionato in una anatomia di giudizi impigriti nella mente "comune". Valutazioni che si ripetono, che hanno la pretesa di tradurre sensibilità e logica con l’unico effetto di una “tragica” comicità. Anche il rinoceronte fallisce, non risveglia dal torpore la coscienza, non la spinge a raccogliersi ed a funzionare, perchè è tragedia del linguaggio, quando si avverte che l’unica sua tensione è verso quel tentativo, tuttavia inutile, di riportare le cose allo status quo, alla posizione originaria, all’immobilità primitiva. Una sorta di “negazione” della realtà e quanto essa può contenere. Botard "Non riesco ad osservare una cosa del genere. Si tratta di una illusione".
Proprio questa assenza del pensiero -dobbiamo pensare- è la causa del trascinamento epidemico di tutti verso la trasformazione rinocerontesca, con l'unica eccezione di Berenger. La logica, in realtà, è intrattenuta in un falso tentativo di "accettazione" della realtà. Se si dubita di quanto si osserva, questo può spingere verso un incontro a-pregiudiziale con le categorie di quanto sino ad oggi si è “archiviato”, scoprendo la “propria” realtà; ma se il dubbio è anonimo, o nasce solo dalla paura, ha perso la radice del personale “dolore”, esso allora diventa l’anestetico verso espressione dell’anima del singolo uomo.
Osserviamo ancora Botard, nella seconda scena. Essa descrive un ufficio, un luogo comune appartenente alla vita di tutti i giorni, con persone impegnate nel loro lavoro. Nella discussione che sorge in merito agli "incidenti" con i rinoceronti, egli diffida dell’esistenza di questi ed apertamente ridicolizza le informazioni che gli danno i colleghi, il personale racconto oculare dei fatti e persino quanto riportato in cronaca dai giornali. Egli non crede a quanto viene scritto. Eppure, poco dopo, egli è quasi disposto a giurare di non aver mai messo in dubbio l’esistenza di quegli animali, anzi, di aver seguito sin dall’inizio l’evolvere della vicenda e di avere i propri fondati sospetti” sui responsabili del fatto! Ecco un esempio di "dubbio" che non serve la ricerca di un senso, ma che si protegge da solo, sino a blindarsi in una cieca assenza di consapevolezza sulle proprie contraddizioni. Proprio Botard, lo stereotipo della logica, che non si fa prendere dalle psicosi collettive, si trincera nel proprio “delirio” persecutorio, lontano dalla tanto declamata razionalità ed interpretando a pieno il tema dell'assurdo.
Foto: Drammaterapia, Il Rinoceronte, Botard e l'Assurdo, CDIOT, 2009
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