@ Director
As mind master of the CDIOT, this gives me the opportunity to open a discussion on the fascinating Mind's Creative Processes and the Theatre. So I invite you to join our community, getting it prestigious, because it will be built with your intuitions and questions, meditation and inner answers. This is the place where you can use the freedom to express your doubts and you ideas, sharing with the others the research of your way. The Mind is a living miracle, available better than we could immagine; the theatre is a powerful tool to get deeply its power! But what beyond our discussions?
Prepare for becoming part of a new way to discuss with your right emisphere.
Explore the real power of hypnosis, dramatherapy and cinema-dramatherapy and get away its magic and false misconceptions.
Work nicely with us to create our friendship and the warmth of our curiosity and mind’s exploration.
Learn, enjoy and get excited!
Help yourself adapt to altering life-style changes..if there’s one constant in our life today it’s change; from every direction and faster than ever.
Let’s make the dream a reality...and much much more! Contact and interface with our staff; psychiatrists and psychologists will help you to get your life better!I’m just looking forward to seeing your messages here!

"It does not take much strength to do things, but it requires great strength to decide on what to do" Elbert Hubbard

domenica 28 novembre 2010

Drammaterapia, Creative Drama e Piece

@ Director

Quasi alla vigilia di un teatro che diventa performativo, quello della drammaterapia, tradendo rischiosamente e con fascinazione il proprio statuto (quello che lo vorrebbe interessato al processo e non ad una piece finale), qualche piccolo tip che permetta di lavorare meglio le parti, comprensibile alla luce di quanto più volte discusso insieme a voi.
  • Se la vostra performance sarà sulla falsa riga di una buona recitazione, questo costituirà una buona premessa, ma non il risultato.
  • La piece finale è un grande laboratorio finale, dove al gruppo dei partecipanti i laboratori, quali spettatori del processo drammaterapico (rituale ristretto), si sostituisce il pubblico (rituale allargato), come nel teatro in senso stretto.
  • Il gruppo degli attori così diviene un grande corpo, ed un'anima insieme, che modulano il processo all'unisono, compresi delle differenze e dei diversi punti di arrivo (equilibri, catarsi ed insight).
  • Le parti sono oggetti materici che ora l'attore muove e disloca, senza la preoccupazioni di costruirle (un oggetto se è, esiste di per sè). La modalità con cui le muove e le fa interagire con il gruppo costituisce la performance drammaterapica: la piece.
  • Tutti gli attori "recitano" un hypnodrama, con legami visibili e meno, che può allargarsi al pubblico.
  • Questo permette la fluidità del "racconto" esterno, suggerito dalle dinamiche dei vari racconti dei singoli attori che trovano il laboratorio quale posto ideale per essere elicitati e "giocare" l'incontro creativo.
  • Non vi è un attore con la sua parte, ma una parte dell'attore a giocare con quelle degli altri e viceversa.
  • Ciò che viene rappresentato non è mai esistito prima ed è nel costante bilico della nascita e della morte.
  • La coscienza di quest'ultimo fatto con l'insostituibilità delle azioni drammaterapiche di tutti è il fondamentale motore della piece.
  • Essa riassume quanto processato prima, nella appartente cristalizzazione del rappresentato teatrale, senza identificarsi con esso.
  • nella sua dimensione di teatro "antropologico", alla stregua del teatro sciamanico, la piece finale performa nella "terra di mezzo" quanto ha lavorato nella dimensione intrapsichica e relazionale.
  • Questo è lo "spettacolo" del teatro drammaterapico.
Un grande uomo come Manzoni affermava che un carattere distintivo e prezioso dell'amicizia è la possibilità che offre di confidare un segreto. Confidare. Segreto. Cosa si confidano gli attori nella performance drammaterapica? In una dimensione apparentemente impudica e pubblica di una amicizia speciale, dove le reciproche proiezioni hanno esaltato ed abbattuto più volte le singole relazioni, si confidano costantemente il senso del personale progetto, o meglio, della ricerca di esso, attraverso il passaggio nell'altro. Una infinità di specchi che si prestano a restituzioni significative, mai letterali o solo speculari, di quanto pensato e provato. Essi sono "amici" in tal senso: l'importante energia dei loro segreti diviene disponibile al lavoro gruppale. Segreti fatti di sguardi e confessioni nella parte, personaggi che si affacciano dietro i testi e che superano e dialogano con essi. Questo è la drammaterapia e con questo lavora l'In-Out del Creative Drama specifico del nostro statuto. Catarsi fuori redazione e spesso differite rispetto al laboratorio imputato.
E se questa energia e questo prodotto mai statico venisse rappresentato davanti ad un pubblico e riprocessato nello "spettacolo" del teatro, come Grotwsky lo intendeva, povero di apparato scenico e pregnate di certosino lavoro dentro la propria "privata" parte, mi sono chiesto due anni fa? Ed è nato il Creative Drama & In-Out Theatre. Riconosciute le proprie origini, l'attore crea il luogo del teatro dove sta recitando. Non è mai il luogo a creare lui.

Drammaterapia: Dio e Uomo, Bene e Male, Bianco e Nero

@ Bleu

No, niente nostalgia per favore. La nostalgia è sinonimo di assenza , è cosa che svela l’età , può paralizzare e rendere inerti.Se si cita qui un esempio della storia della RAI è solo per riflettere e per approfondire la relazione tra bene e male, tra silenzio e grida, tra etica e religione, tra nero e bianco, tra Barbablu e Rebecca ………..
Abbiamo scelto, attraverso l’Atelier, di essere nel mondo, di recepire nel nostro lavoro artistico gli input che arrivano dalla vita quotidiana e di portarli nella nostra rappresentazione.In uno dei precedenti post, il Director ci ha evidenziato come non possiamo, anche nella nostra attività teatrale, “chiamarci fuori” dagli eventi dalla realtà e della cronaca, anche se ci cimentiamo in ruoli che non attingono al nostro vissuto e pur facendo largo uso del mezzo virtuale. Violenza e male ci appartengono, ci contaminano, ci affascinano. Il lato oscuro, incarnato in Barbablù, risuona e trova echi nella nostra coscienza e ognuno di noi sa quanto il rimbombo possa essere sonoro, nella solitudine di un doloroso vis a vis con sé stesso. La curiosità di Rebecca può essere talvolta non l’istinto alla ricerca e alla scoperta, ma una mera narcisistica tendenza al superamento di un limite, di un tabù, di un ordine morale che può essere sfidato e vinto. Luce in Barbablù nel desiderio di amore, ombra in Rebecca nella volontà di calpestare questo desiderio.
Relativismo alla estrema potenza pericoloso in tutte le sue accezioni. Rifiutarlo può condurre all’aberrazione di non saper più riconoscere le sfumature di grigio che vi sono tra i metaforici bianco e nero, alla chiusura verso la estrema varietà del mondo e delle vicende umane. Accettarlo in pieno può significare la deriva etica o un’assenza di riferimenti cui difficilmente l’individuo è preparato. Personalmente, accetto il relativismo solo come contrario di “assolutismo”, con tutte le implicazioni che ciò comporta. Se vi siano indicazioni convincenti sul quesito degli opposti valori è materia su cui si può dibattere a lungo.
Ma, come a dimostrare che nulla si muove per caso e che il cambiamento indotto dalla drammaterapia è lento, sì, ma inesorabile come la crescita della montagne, dall’osservazione della vita quotidiano intorno a me arriva una risposta che non potevo ignorare.
Sul tavolo della mia collega, sta in bella vista un libro voluminoso che solo a guardarlo viene voglia di abbassare la voce, e di non fare gesti bruschi perchè sarebbe mancanza di rispetto, come ridere in Chiesa o citofonare a casa di qualcuno a ora di cena. Quel libro è “I fratelli Karamazov” .
C’era, negli anni sessanta, un’Italia ancora non pienamente scolarizzata, in cui pochi parlavano l’inglese o comunque una seconda lingua, dove ancora l’analfabetismo non era stato sconfitto. Gli echi del sessantotto tardarono ad arrivare. La TV aveva solo due canali, era in bianco e nero e non era presente in tutte le case.

Era una televisione con molti limiti culturali. Poco dissenso , molto perbenismo, e si rivolgeva alle famiglie, immaginate secondo una visione tradizionalista.Quindi niente escort in TV, niente male parole, niente vallette in vesti succinte (ancora non c’erano veline o schedine). In una parola niente eccessi, né in bene, né in male.
Eppure questa Televisione fu capace di proporre in prima serata un caposaldo della letteratura mondiale come “I Fratelli Karamazov”, non certo una lettura scorrevole a volerlo definire con ironia. Attori teatrali di prima grandezza, rispetto della trama e dei dialoghi, quasi nessuna concessione ad adattamenti e a semplificazioni più ruffiane, grande uso di primissimi piani: l’opera ebbe un ascolto medio di 5.400.000 telespettatori. (fonte dal web) . Un numero sorprendente se si considera il contesto sociale poco sopra accennato..
Il mio scritto si ferma qui. Altre parole sarebbero una mancanza di rispetto, una gaffe, un eco ridicolo e inutile al dialogo della scena che trovate di seguito:  I fratelli Karamazov (Il Grande Inquisitore, parte I di II).

giovedì 25 novembre 2010

BLUE BEARD, TO WANT, TO NEED, TO BE


BLUE BEARD, TO WANT, TO NEED, TO BE
piece drammaterapica di E. Gioacchini
diretta da E. Gioacchini e M.P. Egidi
Atelier Drammaterapia per le Risorse
Roma, 11 dicembre 2010, h. 21.00
Via Ostiense, 193

Drammaterapia: la Violenza fuori e dentro al Teatro

Quando la cronaca descrive la violenza ed il dolore della collettività ha l'implicito rischio di proporsi in veste voyeuristica, anche dove non persegua questo intento. Sono le riflessioni etiche, se contestuali, a contemperare tale effetto collaterale del diritto di informazione. Anche l'Arte del Teatro non sfugge a tale regola.
Hieronymus Bosch (1450-1516), particolare del Giudizio Universale (1504): l'Inferno

"Un mese fa, ho riflettuto a lungo se fosse il caso di mettere in scena la pièce di "Blue Beard: To Want, To Need, To Be" e solo numerose riflessioni all’interno del laboratori dell’Atelier LiberaMente l’hanno salvata dalla malignità della coincidenza, dell'attualità, dallo sgomento dello "avvenuto per davvero". La scomparsa e poi la triste fine di Sarah Scazzi non poteva essere separata da quanto un laboratorio di dramma terapia va elaborando, soprattutto se quanto si lavora è così tematico." Pochi giorni fa scrivevo così sulle pagine del blog dell'Atelier di Drammaterapia, riferendomi alla cronaca del delitto di Sarah Scazzi, alla "maligna" coincidenza di un allestimento drammaterapico (il Barbablù) e vicende reali che stanno "appassionando" l'Italia della sera, ma anche del pomeriggio e della mattina... Che delitti del genere possano avvenire è dimostrato dai fatti; che siano sentore di una gioventù che ha perso i valori solo ora (sic), è tutto da vedere; che dentro di essi dorma il "mostro" che, ad esempio, l'Atelier va a a rappresentare, ha bisogno di qualche precisazione in più.
Nel l'aprile del 2001, con il mio gruppo scientifico,organnizzai presso la scuola dei miei figli (classi elementari allora) un convegno universitario sulla "Violenza Intra ed Extra Familiare". Una assise scientifica molto importante, non solo per la presenza di diversi accademici, magistrati ed agenzie impegnate nel sociale (l'Associazione Moige) e criminologhi come me, ma perchè intendeva raccogliere esperti e famiglie a discutere insieme fenomeni che hanno le loro radici nella vita di ogni giorno ed è ovvio che a questa debba essere rimandato un messaggio interpretativo ed educativo, possibilmente di prevenzione.
Pochi mesi prima vi era stato l'inquietante delitto di Erika ed Omar a Novi Ligure ed anche in quel caso tutti si erano chiesti come potesse essere accaduto qualcosa di così terrificante in una famiglia tanto "normale". Basta rileggere la cronaca accertata del duplice omicidio, quella angosciante dell'uccisione del fratellino dodicenne, per comprendere che nulla di simile può realmente accadere se non vi sono delle premesse, vuoi di ordine psicopatologico che di ordine sociale, di conflitto familiare. Ma quello che gli esperti si trovarono a discutere in quella sede scolastica (location volutamente decentrata rispetto l'accademia) fu il "pabulum" culturale di difficoltà, incomprensioni, disadattamento che spesso, senza assurgere a dignità di disturbo mentale, conduce i giovani e meno giovani a gravi disturbi del comportamento, alla asocialità e dissocialità, al crimine, alla deviazione delle condotte sessuali, dunque alla rottura di quel silenzioso patto familiare, gruppale, sociale, non redatto su carta, che garantisce i comuni intenti di vita della comunità umana. Riguardo poi alle considerazioni che desiderano vedere sempre nell'ultima generazione i disastri educazionali della precedente, con lo sdegno tipico del gap generazionale, veniva ricordato quanti e quali giovani militassero nelle "bande" ideologiche degli anni di piombo e come non vi fosse alcun disturbo di personalità a poter giustificare le stragi, in quei casi. Più volte, abbiamo dibattute su queste pagine che situano il "nostro" teatro nel sociale (da noi definito teatro "totale") che l'abitudine è sovrana in ogni aspetto della vita umana: quella che lavora per il milgioramento di tanti aspetti dell'esistenza, ma anche l'abitudine a non parlare con i figli, quella di perdere lo scandalo dell'offesa, della violenza, dell'indifferenza a non interrogarci sul pensiero di chi ci è vicino e dei suoi bisogni.


Veniano alla pièce, Bue Beard, To Want, To Need, To Be. Barbablù della fiaba e Gilles de Rais storico appartengono alla categoria degli assassini seriali e, per l'ultimo dei due, non è difficile ricorrere alla nosografia di un omicida seriale organizzato, di tipo edonistico e compulsivo. Differente la storia che stà dietro lo sviluppo di un'idea omicida in un adolescente, del movente di presunta invidia ed energia rabbiosa che sembrano costituire il quadro in cui si giustifica l'assasinio di Sarah. Certo è che sia lì che nella storia di una "follia" perpetrata dal killer plurimo Gilles de Rais, vi è un contesto che in qualche modo "partecipa" il delitto con omertà, dissimulazioni, ambiguità, indifferenza, tornaconto personale e, per il killer storico, ipocrisia. Se l'opinione pubblica può approfittare di segnali così tragici per leggere le proprie paure ed appassionarsi al poker della carte giudiziarie degli incidenti probatori, delle deposizioni, crediamo che si dovrebbe utilizzare ogni "emergenza" del dolore, dell'inganno e del tradimento "a quanto si crede" per riflettere, discutere e migliorare questa umanità; perchè non diffidi di se stessa, perchè non si esalti senza conoscenza.

mercoledì 24 novembre 2010

Drammaterapia e Catarsi: verso il cambiamento

@ Director
Modificare la propria condotta in vista di un obiettivo non sempre costituisce un compito facile, anche se la posta in gioco rispetto a quel traguardo é alta e magari, sulla carta, meriterebbe ogni nostro sforzo. Questa è una realtà con cui ci incontriamo ogni giorno o quasi, nelle più differenti corcostanze. Quando la modificazione è di tipo funzionale alla situazione, prestazionale, ma senza un cambiamento strutturale nella personalità del soggetto, il risultato non possiede i requisiti di autenticità e potenza ed il valore del nostro sforzo è spesso vanificato dalla variazione anche minuscola di uno dei dati del problema che stavamo affrontando.  Un lavoro più profondo che coinvolga i nostri veri ricordi, bisogni, aspettative, timori costituisce invece un reset capace di riprogrammare progetti ed orientare le energie. Questo accade in psicoterapia, ma perfino in alcune circostanze della vita, fuori del setting, quando situazioni "limite" obbligano il soggetto ad una rielaborazione cosciente ed inconscia del proprio progetto di vita e modello della realtà.
In drammaterapia, il teatro ha questa potenza di lavorare con il "come se", svegliandolo dal letargo dello spettacolo in poltrona, come da quello immanente del sintomo, del conflitto, del lapsus e obbligare il soggetto a confrontarsi con quanto inevaso, dissimulato, nascosto e persino negato. A farci personaggi ed interpreti. Allora le prove d'autore della personalità alle prese con le più svariate situazioni divengono innumerevoli e senza finale scritto, si modulano sul momento storico ed individuale della persona, approdano ad adattamenti nuovi e fino ad allora inespressi. In questo senso il teatro usato in drammaterapia possiede un ruolo di elemento transizionale, che accompagna, quale testimone (il setting, il gruppo, il director, il pubblico), il soggetto verso la verifica di possibili cambiamenti. L'aspetto catartico di questo lavoro risiede proprio nella ridefinizione di pensnieri ed emozioni difronte allo spettacolo della propria rappresentazione: come non la si immaginava, come si ha il coraggio di usare, come praticabile da quel momento in poi e, soprattutto, come s'impone ora nuova alla nostra coscienza.

Vigilia e prassi dramaterapica per una piece

Director

Alla stessa stregua di una convention politica, dove giocano sino all'ultimo speranze, ideali e strategie, anche questo Atelier si prepara  a performare "impudicamente" quanto lavorato. Ago e filo sui costumi di scena , prove estenuanti a mediare tra dentro e fuori, ed infine attori, a volte strapazzati, gettati su un palco a rappresentarsi. Tutto questo mentre una veste troppo corta di  Barbablù o della sua sposa lasciano intravedere la nudità di un lavoro giocato oltre l'interpretazione ed affidato al processo drammaterapico. Il resto è aneddoto, quel mix che la parola greca (anékdotos), all'origine, contiene come inedito e segreto. "Inedito" perchè ogni gruppo ed ogni partecipante porta la ricchezza specifica della sua individualità e come gioca nel lavoro gruppale e "segreto" per quanto attiene al lavoro dell'inconscio al servizio dell'Io.

lunedì 22 novembre 2010

Cosa c’entra il processo drammaterapico con il concetto di specie bandiera e con l’istrice nostrana?

@ Maria Pina

La curiosità di Rebecca costa cara alla protagonista della nostra favola, mentre trasforma noi, frequentatori dell’Atelier di Drammaterapia per le risorse 2010, in esploratori e in commentatori di concetti che obiettivamente non si affrontano tutti i giorni.
Nobile attività del pensiero superiore quella di non sottrarsi mai agli stimoli estemporanei che provengono dal tavolo attorno al quale Director, assistente e attori riflettono sul tema centrale della piece e sulle sue implicazioni che, a un certo punto della giornata di domenica, ci hanno portati a parlare dell’istrice nostrana, ma anche di radici, di identità e di cultura tradizionale.
Vorrei sottolineare come questa prontezza nella reazione e questa partecipazione immediata ad affrontare un tema insolito che , a prima vista, non sembrava collegato alla illustrazione tecnica del lavoro teatrale, sia una potenzialità da sviluppare, da coltivare, un prezioso dono/risultato dell’attività dell’Atelier.
Permettetemi di aggiungere la mia personale soddisfazione nel sentire che l’argomento del mio dottorato di ricerca (la relazione tra natura e cultura locale) sia un argomento stimolante che si presta a essere affrontato e approfondito anche in una situazione tanto lontana (ma forse non così tanto) dal mio consueto campo di azione.
Hystrix cristata , questo il nome scientifico dell’istrice, è un elemento consueto della nostra fauna. A rigore non si può definire una specie protetta, bensi “una specie naturalisticamente rilevante”. Potete trovare qui  un buon complesso di notizie su questo animale e togliervi alcune curiosità. Per esempio, perché si dice erroneamente che l’istrice lanci i propri aculei verso una potenziale minaccia.
Come vi sentireste se un giorno il Colosseo crollasse? O se San Pietro fosse danneggiata ? Chi tra voi ricorda la propria reazione personale quando un folle, negli anni 70 , sfregiò la Pietà di Michelangelo? Sicuramente, vi sentireste addolorati, derubati, monchi…eppure un evento del genere, probabilmente, non cambierà la vostra salute, non vi toglierà il pane di bocca, non cambierà la vostra famiglia. Ma sicuramente procurerà uno scossone alla vostra identità, al vostro essere romani, al vostro senso di appartenenza a una città, a una cultura, a uno stile di vita. Cambierà il sapore dei vostri ricordi, orienterà i vostri gusti e avrà ripercussioni sul gruppo e sull’individuo. Così dovremmo sentirci quando una specie consueta nei nostri ambienti è in pericolo, diminuisce o non viene più avvistata.
A volte, una specie particolarmente legata a un luogo viene utilizzata come elemento simbolico per comunicare in maniera immediata ed efficace la necessità di tutela di un intero ecosistema: diventa così una “specie bandiera” , capace di catalizzare attenzione a tutti i livelli su un problema più generale. Le nostre radici individuali, quelle più vere, affondano in questa commistione di elementi naturali e simbolici. Esse non sono impedimenti all’esplorazione e alla ricerca, ma ancore che ci tutelano contro la deriva e ci permettono di allargare i nostri rami verso il mondo esterno e di allungarli verso il cielo. Vi osservo dalla mia posizione di assistente e interagisco con voi come attrice, ma il biologo che è in me esce sempre fuori. Siamo un nucleo ad alto tasso di biodiversità: tante storie personali, tanti caratteri, tanti modi di essere presenti o , a volte, “diversamente presenti”.

Barbablù in Drammaterapia, 11 dicembre 2010, pièce in quattro atti di E. Gioacchini

Blue Beard, dicembre 2006, Atelier Drammaterapia Liberamente


COMUNICATO STAMPA
Questo 11 dicembre, in scena a Roma, il “Barbablù” dell’Atelier di Drammaterapia LiberaMente, riduzione drammaterapica della favola di Barbablù di J. Perraul, ispirata alle gesta eroiche e sciagurate di Gilles de Rais. L’opera è scritta e diretta dal criminologo, psichiatra e drammaterapeuta Ermanno Gioacchini, con la co-regia di Maria Pina Egidi ed è stata allestita nel contesto del corso di drammaterapia per le risorse per gli allievi del primo anno dell’Atelier. L’evento avrà luogo presso la Scuola di Musica e Multimedia VideoAmbiente (quartiere Ostiense).

Blue Beard: To Want, To Need, To Be:Tutta la pièce è costruita su tre tematiche fondamentali: il rapporto dell'individuo con il Destino, l'influenza parentale su quest'ultimo e la relazione con l'oscuro. Esse si affacciano costantemente nei dialoghi tra i personaggi, in modo diretto, ma pervadono comunque sempre l'opera attraverso l'uso simbolico, materico o interpretativo, delle scene. Attraverso gli intesi dialoghi degli attori nasce un nuovo racconto, capace di condensare storia, leggenda e motivi psicologici dell'umano. Già nel prologo, avviene un sovvertimento inquietante: questa volta a narrare la fiaba sono una bambina ed una giovinetta agli adulti in sala: il rovesciamento nella committenza sta a simboleggiare il ritorno del mito alla sua origine, lì da dove è scaturito, dalla vicenda umana che ha tradotto in racconto epico, in favola, una realtà ancor prima condivisa. Ed ancora questa ora collude nello scambio delle parti tra le due piccole narratrici ed il pubblico. Le bambine sono vestite dello stesso abito (un tubino bianco strisciato con un motivo alla Mondrian) che nel prosieguo della piece indosseranno anche le tre interpreti dell'ultima moglie di Barbablù: intuibile simbolo di destini che debbono diventare consapevoli per davvero sottrarsi all'epilogo della storia. Lo spazio tra interprete e spettatore è sin da questo inizio annullato, capovolto rispetto alla logica razionale: il vero spazio, semmai, sarà quello superato o reso grande dalle resistenze identificative sollecitate in sala.
"I miti ci guardano costantemente e noi dobbiamo riuscire a sostenerne lo sguardo" afferma Hilmann; bisogna riconoscerli dietro le maschere dei nostri modelli di funzionamento sociale e privati, oltre i nostri desideri, più avanti del concetto di “curiosità” che il testo letterale di Perrault celebra quale movente all’infrazione, oltre l’uscio di quella porta. L’autore della drammaturgia, scandaglia dentro la conosciutissima ed inquietante fiaba, le tematiche del perturbante che dormono silenziose in una parte di umanità tra noi, che comunque tutti partecipano da attori o spettatori, come la cronaca costantemente ci mostra. Il criminologo E. Gioacchini sembra poter dire che per il Gilles de Rais storico, probabilmente, non vi sarebbe stato molto da fare e persino Barbablù, alla mantenuta promessa della sua sposa, forse avrebbe dato corso all'ennesimo delitto. Ma dentro la storia di un vero omicida seriale, favolesco, come nella fiaba di Perrault o storico nel personaggio di Gilles de Rais, la pièce ha preso in prestito la loro vera "follia", per leggervi i simboli e la trama di un incontro tra partner ed il timore di non essere amati; la discussione sul corredo di quanto un amante porta all'altro nell'unione d'amore e nella potenziale distruzione del sogno; l’ipocrisia. che traveste di signori e signore i mostri che sono nell’umanità, ma anche la coscienza comunque pronta al risveglio, e, nell’amore, al rapimento senza delitto dell’anima.

L'evento performativo è gratuito ed offerto dall'Atelier di Drammaterapia Liberamente. Obbligatoria la prenotazione a dramatherapy@alice.it o al numero 3403448785.

venerdì 19 novembre 2010

Drammaterapia, Barbablu: Prologo , la fiaba


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PROLOGO

UNA PRIMA BAMBINA ENTRA IN SCENA, DAL FONDO DELLA PLATEA A SINISTRA, PER LA LETTURA DELLA FIABA, FACENDO DEI LUNGHI E TORTUOSI PERCORSI TRA GLI SPETTATORI E LASCIANDO CADERE UNA TRACCIA DI CARAMELLE PRESE DA UN SACCHETTO CHE HA CON SE. DOPO SETTE SECONDI, UNA SECONDA BAMBINA LA SEGUE –È PIÙ PICCOLA DI ETÀ. LA PRIMA BAMBINA RAGGIUNGE IL PROSCENIO, IN POSIZIONE CENTRALE. ANCHE QUEST’ULTIMA, APPENA RAGGIUNGIUNTA LA PRIMA, LA OLTREPASSA E LASCIA CADERE DELLE CARAMELLE, DISPONENDOSI QUALCHE METRO LONTANO DALLA PRIMA BAMBINA, PIÙ IN INDIETRO, SULLA SINISTRA. LA PRIMA BAMBINA, DOPO AVER RECITATO LA PRIMA PARTE DELLA FIABA, PARTENDO DA UN LENTO CAMMINARE, INIZIA UNA DANZA (M2 VIVALDI - THE FOUR SEASONS "WINTER" / LE QUATTRO STAGIONI "L'INVERNO", GIULIANO CARMIGNOLA). LA SECONDA BAMBINA, TERMINATA LA FIABA, SI UNISCE ALLA PRIMA. ENTRAMBE ESCONO DI SCENA TENENDOSI PER MANO, MIMANDO DI DIALOGARE TRA LORO E TORNANDO SUI LORO PASSI D’INGRESSO.

1° Bambina - C'era un a volta un uomo tanto ricco quando brutto. Egli possedeva palazzi in città, ville in campagna, scuderie piene di cavalli, forzieri colmi di monete d'oro, ma aveva la barba blu, una barba che gli dava un aspetto così terribile che tutte le ragazze scappavano non appena lo vedevano. Aveva già chiesto la mano di parecchie fanciulle, poiché desiderava sposarsi; ma tutte lo avevano rifiutato. Tuttavia egli non si stancava e continuava a cercare moglie. (...)
1° Bambina - Hai adoperato la chiave che ti avevo proibito di usare? Vuoi restituirmela, ora? La ragazza porse la chiave con mani tremanti, e Barbablù vide subito che era macchiata. - Perché c'è del sangue su questa chiave?
2° Bambina - Proprio non lo so…
1° Bambina - Ebbene, lo so io! (gridò ferocemente l'uomo) Tu mi hai disobbedito e sei entrata nello stanzino. Perciò vi ritornerai, e questa volta per sempre, perché io ti taglierò la testa e ti metterò a fianco delle altre donne che furono curiose come te.
2° Bambina - La povera ragazza a quelle parole divenne pallida come una morta e si buttò in ginocchio: - Perdonatemi! (singhiozzo) Io non lo dirò a nessuno ciò che ho veduto.
1° Bambina - Tutte le donne sono pettegole così come sono curiose; solo quando ti avrò tagliato la testa, sarò veramente sicuro che non parlerai.
2° Bambina - Vi prometto che vi obbedirò sempre! Vi prometto che non dirò una sola parola.
1° Bambina - (Barbablù ridendo sgangheratamente, disse) Ti ho veduto alla prova! E adesso sono stanco di ciarle: vieni con me perché la tua ultima ora è suonata.

 segue esegesi critica del testo (...)

Tutta questa piece è costruita su tre tematiche fondamentali: il rapporto dell'individo con il Destino, l'influenza parentale su quest'ultimo, e la relazione con l'oscuro. Esse si affacciano costantemente nei dialoghi tra i personaggi, in modo diretto, ma pervadono sempre l'opera attraverso l'uso simbolico materico o interpretativo delle scene. Il prologo è l'inizio della storia, la narrazione della fiaba, una fiaba capace di condensare storia, leggenda e motivi psicologici dell'umano, che, questa volta è letta da due bambine agli adulti. Le bambine sono vestite dello stesso abito (un tubino bianco strisciato con un motivo alla Mondrian) che nel prosieguo della piece indosseranno le tre interpreti dell'ultima moglie di Barbablù: intuibile simbolo di destini che debbono diventare consapevoli per davvero sottrarsi all'epilogo della storia. Il rovesciamento nella committenza del dato sta a simboleggiare il ritorno  del mito alla sua origine, lì da dove è scaturito, dalla vicenda umana che ha tradotto in racconto epico, in favola, una realtà condivisa. Ed ancora questa, ora è condivisa con uno scambio delle parti tra narratore (deu bambine) ed ascoltatore (il pubblico). La scelta delle narratrici è al femminile in questo inizio (poi cambiera lungo la piece), proprio a significare la lettura della vicenda attraverso il vissuto di Rebecca, l'ultima moglie di Barbablù, scampata "fortunatamente" al proprio destino. L'azione delle due piccole interpreti (la seconda più piccola della prima perchè sia enfatizzato il concetto di percorso vitale dentro la storia) inizia tra gli spettatori, lì dove la vicenda ha potenziale svolgimento (quante Rebecche tra loro), ingenuo travestimento (quanta finta realizzazione), subdolo mascheramento (quale oscuri segni). Proprio questa partenza dal luogo delle origini, questa umanità seduta che ascolta ed osserva quanto avviene, con l'impotenza e la contestuale possibilità di cambiare, istruisce di senso l'apertura del prologo. Le due bambine camminano tra il pubblico, come a sorgere tra quello, dall'infanzia mitica, misteriosa e fertile insieme del gruppo umano riunito. Lo spazio tra interprete e spettatore è sin da questo inizio annullato, capovolto  rispetto alla logica razionale: il vero spazio sarà quello annullato o reso grande dalle resitenze identificative semmai. Procedono, lasciando dietro di loro una traccia, delle caramelle, dei segnali per un possibile ritorno, che vedremo sarà negato. Sono segni di zucchero, dolci come l'età dell'infanzia, come quell'ideale del bambino/purezza/ingenuità/incanto che esiste celebrato in ogni cultura, laica o religiosa. E tuttavia, destinato ad essere sconvolto (l'deale) dal fisiologio passaggio verso il disincanto delle successive età dell'uomo. Nel momento del ritorno, dopo la lettura della fiaba, e la danza della vita sulle note del "traumatico" inverno di Vivaldi, i segnali a terra saranno stati mossi o perduti, resteranno forse nascosti dietro l'ombra più pesante dell'esistenza che seduta le osserva, che poco può fare perchè ogni pericolo sia scongiurato. L'epifania di possibili tragedie o speranze è tutta lì, è annunciata, nella forza del ritorno o forse quella, più potente, dell'esplorazione di altri universi, destini possibili.

giovedì 18 novembre 2010

Drammaterapia e Biliardo: "...ed il gioco si porta via, rotolando la vita mia"

 @ Bleu


Il Gioacatore di Biliardo
di Angelo Branduardi

Soltanto l'erba sull'altopianoverde un po' di più/ ma non c'è da pensarci su/ non c'è da stenderci su la mano/ cercando di capire/ qual'è il punto dove colpire/ tic-tac tic-tac/ per ogni geometria/ tic-tac tic-tac/ ci vuole fantasia/ C'e una luce che luna non è/ in un buio che notte non è/ e una voce che voce non è/ che non parla ma parla di me/ D'improvviso mi brucia la mano/ l'aria verde del panno sul piano/ tic-tac/ ed il gioca si porta via/ rotolando la vita mia/ Ecco perchè si trattiene il fiato/ finchè si resta giù/ e per sempre vuoI dire mai più/ tic-tac tic-tac/ per ogni geometria/ tic-tac tic-tac/ ci vuole fantasia/ C'e una luce che luna non è/ in un buio che notte non è/ e una voce che voce non è/ che non parla ma parla di me/ e di colpo mi sfiora la mano/ l'erba verde di questo altopiano/ tic-tac/ ed il gioco si porta via/ rotolando la vita mia

Drammaterapia e Biliardo

Il gioco del biliardo costituisce una formidabile metafora di come funzioniamo, tra dentro e fuori come in quasi tutte le cose della vita, comprende variabili controllabili, non sempre controllabili, ed alcune del tutto casuali; ha a che fare con abilità apprese, su attitudini innate e fattori psicologici che possono lavorare verso il successo o solo verso una “sponda”. La palla che ti si mette di traverso alla tua strategia di tiro condiziona la tua abilità, ma allo stesso tempo quella che casualmente colpita aggiusta il tiro e manda la tua in buca…non era stata prevista! Ma c’è un aspetto più particolare di cui desidero parlarvi ed è l’affollamento della palle sul tavolo e dentro la buca.

Il nostro sforzo di dirigerle sul tavolo perché entrino in buca è mirato e funzione di quanto abbiamo detto; potenza del tiro, angolatura dello stesso, punto di impatto della stecca sulla palla, ostacoli sul percorso, gioco delle sponde. Ed oltre che giusto a volte è invece ingrato il nostro tentativo di sentirci totalmente potenti nel condurre il gioco.
 Ma sotto il tavolo, dentro la buca, tutte le palle vivono lo stesso destino di essere guidate in quel luogo oscuro, le più fortunate e le ultime e lì avviene una cosa particolare che segue le leggi del caos e che, tuttavia, ha una regola principale non derogabile. Non sappiamo quali palle  e come si dispongano, ma sicuramente i punti di contatto tra esse, in un luogo accalcato di ospiti, ogni volta potrà variare dietro la spinta dell’ultima. Tutte dovranno rivedere i loro rapporti, i loro indirizzi e rubriche di contatto! Un ennesimo elemento rifarà riconfigurare l’intero sistema, le palle “gireranno” senza appartenere a nessun proprietario turbato, e troveranno finalmente molte volte una loro collocazione. Nell’inconscio, un fatto non rimane mai isolato dall’intero sistema e persino il linguaggio onirico ci dimostra questo, attraverso la sua apparente produzione “folle”. E' nella realtà che noi ci lusinghiamo di creare scaffallature ermetiche.

Un insight che si leghi ad una operazione interna importante finirà per determinare, come affermava Erickson, una serie di cambiamenti fuori “a cascata”, persino tra soggetti diversi. Nessun compartimento stagno nel mondo dell’inconscio, come nessuna differenza tra effettivamente avvenuto o solamente fantasticato, tra presente, passato e presentimento futuro. Le "palle" del nostro destino ruotano costantemente con la possibilità (solo se la cogliamo) di riconfiguare la nostra esistenza e dirigerla differentemente. E tornando sulla superficie del nostro “tavolo”, varranno a questo le abilità, la  motivazione ed l'attenzione, ma anche il gioco imprevedibile e creativo di quanto non riusciremo mai a sapere prima. Nel processo drammaterapico tutto lavora come su quel tavolo ed il risultato è costituito da quella stessa partita. Tutte le partite lavorano nel senso di migliorare il giocatore e di non misurarlo mai con l’euforia o lo smacco di un singolo risultato.

martedì 16 novembre 2010

Drammaterapia e Virtualità

Bozzetto Abito Narratore, Piece drammapterapica
 Barbablù, Atelier DRammaterapia, dicembre 2010
La riflessione sull'uso delle nuove tecnologie di comunicazione e "virtuali", di quanto vi è a monte di scientifico, tecnologico, economico delle stesse, a valle, nella variegata pianura dei loro fruitori e sotto traccia nelle ripercussioni individuali e collettive è argomento molto dibattuto, controverso nella sua definizione, tuttavia poco conosciuto da gran parte della collettività. Gli aspetti empirici di quanto ci propone una certa cultura, che non appartiene certamente al "sapere", ma al fare, hanno un ruolo così accattivante, evolvono in maniera così vorticosa, come si è sottolineato nel post precedente, che con difficoltà fanno soffermare il surfista del web sul concetto di bisogni, sullo sfruttamento sostenibile delle risorse planetarie, sull'utilizzo e sulla comprensione delle proprie abilità. Una riflessione etica all’interno della agenzie che gestiscono internet, ad esempio, dovrebbe proporre discussioni e forum su questi argomenti non solo spontanei, ma supportati dalla presenza di esperti, al di fuori di ogni sospetto di conflitto di interesse, che possano permettere al collettivo di riappropriarsi del pensiero su quanto usa, consegue e determina, spesso senza sapere. Iniziative del genere esistono, ma sempre troppo poche a fronte del pressing tecnologico ed economico cui l'utente è sottoposto. Ad esempio, ci si chiede, come mai questo tipo di insegnamento non sia contemplato nel conseguimento di brevetti di patenti informatiche.
Quanto appena accennato sottintende il concetto che se da una parte è banalizzante reagire anacronisticamente al fenomeno dei social network con crociate o caccia alle streghe, d'altra parte è importante interrogarci su cosa l'umanità di questo ultimo mezzo secolo stia cercando e se affettivamente sia consapevole della sua ricerca. Le domande più importanti della collettività, storicamente parlando, sono sempre nate da una riflessione e da bisogni maturati nelle epoche precedenti, ed hanno avuto risposte, provvisorie, buone, cattive, comunque spesso tardivamente, rispetto alla data scritta nelle proprietà del programma: dove desidero andare. Il relativismo che è nato da un livello di autocoscienza dell'essere, superiore rispetto al passato (la sua struttura linguistica e dunque concettuale si è intensamente sviluppata), collide purtroppo pericolosamente sul "qui e subito", "sempre e comunque" e, dunque, con raggiungimento di beni "compensatori". L'uomo è un animale soprattutto comunicativo, che ha imparato a declinarsi attraverso la comunicazione e, dicevamo qualche post fa, a prendere anche distanza dall'esclusivo dominio istintuale proprio degli "altri" animali. Oggi egli comunica in modo diverso e con questa diversità bisogna fare i conti, comunque.
In un mio intervento del mio 2004, su “D CINEMA e DTT. La filiera cinematografica digitale dalla produzione alla visione. La Nuova Televisione”, tenuto presso l’UNSA (Palazzo UIL), sottolineavo insieme ad altri illustri ospiti, registi e sceneggiatori, come l’immaginario tecnologico si sia così velocemente arricchito di dimensioni che non hanno dato la sufficiente capacità di metabolizzazione del fenomeno all'utente e alle stesse istituzioni, tuttavia ponendo problematiche che vanno oltre a quella della manipolazione dell’immagine, e della protezione del copyright. Stiamo, di fatto, ponendo l’accento sul fatto che la rivoluzione culturale in atto in questo campo e, più in generale, nell’ambito della riflessione sulla scienza ed i suoi mezzi, non è separabile da quello che potrebbe stare per accadere nelle nostre menti e nei suoi modelli di realtà. Non si tratta solo dei prodotti che la tecnologia digitale permette, ma dello stesso processo di distribuzione che ne diffonde l’utilizzo.
La realtà “virtuale”, è sempre esistita, giacché l’immaginale della cultura si è nutrito dei sogni dell’individuo, come dei gruppi, delle loro aspirazioni e fantasie, lo ha realizzato attraverso le immagini oniriche, i misteri dionisiaci, i sogni dell’arte, come per mezzo della stimolazione delle droghe. Ma qui deve essere posto un distinguo fondamentale: il fatto che un partecipante ad un hypnodrama, ad esempio, visualizzi nella trance ipnotica qualcosa che effettivamente non c’è di fronte a lui e reagisca in termini d’assoluta fedeltà agli stimoli “virtuali” che riceve, può davvero essere paragonato alle illusioni di un gioco in 3D, dove il partecipante è immerso con cuffia occhiali, casco, e calato in una seconda pelle multisensoriale interattiva? Nel 1996, il sociologo francese Jean Baudrillard (Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, 1996) ha definito il furto della realtà -la tendenza della realtà a sparire davanti ai nostri occhi- “il crimine perfetto”; infatti la mente moderna, tecnologizzata, non si limiterebbe ad accettare la realtà virtuale, ma arriverebbe in qualche modo a preferirla.
Nel passato, non vi era dunque il fascino della "virtualità" a farsi motore di comportamenti come oggi, certamente con una modalità meno esasperata, ma, se riflettiamo, sempre intensa. Come negare che essa vivesse nella produzione artistica che dipingeva la storia e le storie dell'umanità i suoi miti e sogni, aspirazioni e sconfitte. Una Madonna con il bambino di Raffaello ed ancora prima alcuni dipinti di Giotto (solo per fare alcuni esempi) rimandano ad un percetto che indagato riconosce, oltre la superficie materica del quadro, una profondità "al di là" del quadro e "al di qua" del quadro", non molto differente da quanto propone oggi il 3D. Un’iconografia appartenente al mondo dell'"oscuro", diabolico, iniziatico, proponeva e suggeriva con altrettanta forza di quanto oggi avviene (forse anche maggiore) attraverso un videogioco classificabile "violento". Ma ciò che differenzia i due meccanismi consiste nel fatto che, nella “virtualità” di oggi, il processore che lavora le immagini connettendole alla nostra rappresentazione delreale è nel sistema esterno che la produce (il software e l’apparato emittente), mentre nel passato era la stessa mente (analogica) dell’individuo a farle fare il “salto” verso la virtualità (processo onirico, processo creativo, condizione emotiva). La sensibilità dell’osservatore e meccanismi subconsci operavano comunque nella visione, anche se non indagati come oggi dall'attuale scienza dei segni e dei codici. Lo studio della produzione iconografica si è progressivamente articolato sino a individuare il dipinto non solo quale prodotto, ma anche processo, dove, ad esempio, il "movimento" può essere potenzialmente (virtualmente?) riconoscibile (Omar Calabrese). Nel passato vi era comunque la decisione di pochi, l'oligarchia di caste che, per emanazione divina od interesse politico, determinavano sensibilità, bisogni ed acquisti. Non è cambiato molto, anche se le etichette ai soggetti possono essere variate; quello che invece oggi potenzialmente l'umanità potrebbe utilizzare è la coscienza sulle proprie azioni e dunque sui destini possibili. Il genio può essere coltivato nelle generazioni, favorito dai mezzi tecnologici, utilizzato per il bene comune e se i suoi intenti sono "perversi", senza roghi, neutralizzato solo a volerlo veramente. Questo...in potenza; ma nel passato era tuttavia negato.
La psicologia del profondo ha avuto il grande merito di spostare il centro della ricerca dei valori sull'individuo e sulla collettività, ma non ha potuto affrancarci dalla nevrosi scientista e tecnologica che pretende di dare tutte le risposte su tutto all'uomo. In tal senso, l'individuo scienziato sposta i suoi intenti sul traguardo e perde il senso del suo percorso, del processo conoscitivo che parallelamente attiva in sé. E se questo non è meditato, è automaticamente perso. Parallelamente l’utilizzatore del progresso appetisce il prodotto, ma non s’interroga su quali bisogni quell'oggetto, quella comunicazione, quel contatto, stanno appagando. Nessuna scienza o tecnologia è "cattiva" di per sé, ma è sempre fondamentale il quesito da dove nasca e a cosa risponde.
La didascalia alla foto più sopra recita: "Barbablù, Bozzetto Abito Narratore". E' descritto in pochi segni l'abito di scena dei Narratori (nella foto, l'unica Narratrice è Beatrice), personaggi del Barbablù che abbiamo in lavorazione per sabato 11 dicembre presso VideoAmbiente a Roma. Tutti gli abiti che sono in lavorazione sono nati da una riflessione su quanto avveniva nel processo drammaterapico dell'attuale gruppo, nell'importante diversificazione (come non può essere) da quello che ha lavorato la stessa mia piece drammaterapica quattro anni fa. Mondrian, con le sue linee e, in questo caso pochi spazi delimitati da queste, dà un tocco postmoderno all’ambientazione, disegnando zone "segregate", in un bianco e nero che poco lascia, se non indagato alla comprensione della storia (quella di Gilles de Rais, di Barbablù, di Landru, ecc ecc.). Possiamo davvero credere che la "curiosità" è stata causa di tutto? Gli abiti dei Narratori, molti simili a quello delle Mogli Morte, scoprono spazi di pelle livida, che rincorre le tonalità del destino cui andarono incontro. Le giacche dei quattro Barbablù saranno tassativamente nere, ravvivate da una cravatta di un forte rosso "sangue" a ostentare il perverso connubio tra lutto, sangue piacere nel sinistro personaggio. Tutti i personaggi scalzi, a terra nudi, almeno per quella minuscola superficie tanto importante sotto i piedi e potenzialmente eguali: persecutore, vittima, narratore, affini e, virtualmente, spettatori.
Quanto sto descrivendo è stato intensamente "virtuale", mentre si lavorava con il processo drammaterapico, la storia di Barbablù; mentre era scritta e forzosamente estesa in questo blog, con il rimando a Gilles de Rais ed i suoi delitti, al suo processo e, soprattutto, attraverso il contributo di tutti gli attori. Questo wall graffiti ora la dipinge e la descrive, sempre virtualmente, ben consapevole da dove nasca e dove intenda arrivare. La "virtualità" si sposa felicemente con l'incontro nel reale, a dispetto delle nozze di Rebecca, in questo caso!
Se un teatro può “spogliarsi” di quanto non essenziale, proprio nell’intento di comunicare più intenso, sicuramente siamo inclini a considerare fenomeno regressivo quello Joseph Squier definisce una vera e propria "infatuazione tecnofila per gli strumenti". Si tratta di un problema alquanto datato ma tuttora attuale e riteniamo, per quanto riguarda l’arte ed i suoi supporti espressivi, valida la risposta di Bertold Brecht, secondo il quale, l'arte non è uno specchio con cui riflettere la realtà, ma un martello con cui darle forma.

Drammaterapia e il nostro uso del "virtuale"

E' appena uscito nelle sale romane “The social Network”, movie ispirato alle vicende dei creatori di Facebook. La pellicola fornisce lo spunto per approfondire un passaggio del precedente post.
Se, oltre che seguire la vicenda centrale, si osservano con attenzione le abitudini degli studenti del College ove è ambientata la storia, salta subito all'occhio il massiccio impiego di portatili e di tecnologia informatica che è presente nella vita quotidiana degli studenti americani.
Avere con sé il proprio notebook ed essere collegati in rete, mentre si assiste ad un concerto, averlo acceso, accanto al proprio letto sin dal primo mattino, per poter dare un'occhiata veloce prima di colazione ad eventuali aggiornamenti sul proprio profilo, sembrano essere la regola per gli studenti americani dei primi anni 2000. Anche per un internet addicted più accanito, la situazione descritta è sembrata eccessiva.
Ma, se sgombriamo il campo da facili valutazioni, questa è la realtà: i mezzi di comunicazione cambiano sempre più velocemente, a un ritmo cui è difficile adattarsi in tempi rapidi, e chi non ne usufruisce è tagliato fuori, che piaccia o no. Avere contatti di lavoro, senza disporre di una casella di posta elettronica è impensabile. Gestire un'attività artistica e non disporre di una pagina su Myspace, può limitare notevolmente scritture e contratti.
Probabilmente, quando arrivò il telefono nelle case, molti avranno pensato che la gente non avrebbe più scritto lettere o cartoline. Forse in parte è accaduto proprio questo, ma le persone hanno tuttavia continuato a interagire, a parlarsi, a cercarsi e a trovarsii, ma in modo diverso.
Le mail hanno sostituito le poste, la messaggeria istantanea ha soppiantato le mail, i blog hanno dato la possibilità a tanti di esprimersi e di esporre le proprie idee senza dover dipendere da redazioni e giornali. Non si potrebbe rimanere in contatto costante con i nostri amici lontani senza facebook....e così via
Ancora però si sente il ritornello nostalgico che condanna i rapporti virtuali in favore di quelli reali. Ma quanti hanno il tempo, i soldi, e le energie per parlare, conversare, comunicare con tutti i propri affetti, in maniera costante, continuativa e vera? Quanti lo farebbero comunque?
Non credo che la telefonata annuale per gli auguri di Natale al cugino lontano sia più vera di un messaggio in chat. Né ritengo che certi sodalizi che durano per il tempo di un'esperienza condivisa (come una collaborazione lavorativa, un corso di studi, un allenatmento in palestra) abbiano maggiore spessore di un link su facebook.
Non ci sarebbe neanche bisogno di affermare che una carezza , un sussurro, un abbraccio sono mille volte più importanti e preziosi di una mail. Si sta parlando qui di due situazioni ben differenti, in cui l'una non esclude l'altra: realtà e virtualità rimandano a due livelli di funzionamento del nostro pensiero diversi, che possono essere sinergici e non antagonisti, come si tende spesso a fare.
Questa non vuole essere un'apologia della tecnologia informatica, ma un invito a una riflessione libera e scevra da facili moralismi, leggermente improntata al positivismo.
Il mondo cambia a un ritmo che spiazza ed è difficile seguirlo. Ma ci vengono forniti nuovi strumenti e nuovi spazi da esplorare che possono essere vissuti in maniera creativa per raggiungere obiettivi importanti quali una migliore e compiuta espressione di sé stessi e del proprio mondo interiore. Oppure possono essere utilizzati per una migliore gestione del proprio tempo e delle proprie risorse personali e della vita di relazione: si rifletta sulla rapidità di una mail per un accordo di lavoro per esempio o sulla buona energia che può generare un inatteso pensiero gentile comunicato per sms.
Tra reale e virtuale, la verità, come sempre e diversamente da quanto si pensa, non sta nel mezzo, ma sta in profondità.

domenica 14 novembre 2010

Drammaterapia, Nevrosi e Prezzo: Mad World


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MAD WORLD  by Gary Jules

All around me are familiar faces
Worn out places
Worn out faces
Bright and early for their daily races
Going nowhere
Going nowhere
Their tears are filling up their glasses
No expression
No expression
Hide my head I want to drown my sorrow
No tomorrow
No tomorrow
And I find it kind of funny
I find it kind of sad
The dreams in which I’m dying
Are the best I’ve ever had
I find it hard to tell you
I find it hard to take
When people run in circles
It’s a very very
Mad world
Mad world
Children waiting for the day they feel good
Happy birthday
Happy birthday
Made to feel the way that every child should
Sit down and listen
Sit down and listen
Went to school and I was very nervous
No one knew me
No one knew me
Hello teacher tell me what’s my lesson
Look right through me
Look right through me
And I find it kind of funny
I find it kind of sad
The dreams in which I’m dying
Are the best I’ve ever had
I find it hard to tell you
I find it hard to take
When people run in circles
It’s a very very
Mad world
Mad world
enlarged in your world
Mad world

MONDO FOLLE

Tutto intorno a me ci sono volti familiari/ Luoghi logori/ Volti logori/ Sveglio e brillante per le corse quotidiane/
Senza meta/ Senza meta/ Le loro lacrime hanno riempito i loro bicchieri/ Nessuna espressione/Nessuna espressione/Nascondo la testa voglio affogare il mio dolore/ Nessun domani/ Nessun domani/ E trovo un pò buffo/
e trovo un pò triste/che i sogni in cui muoio/ sono i più belli che abbia mai fatto/ E trovo difficile da dirti/ E trovo difficile da sopportare/ quando la gente corre in circolo/ E' davvero/ Un mondo folle/ Un mondo folle/ Bambini che aspettano il giorno in cui si sentiranno bene/Buon compleanno/Buon compleanno/Ti fanno sentire come ogni bambino dovrebbe/ Seduto ad ascoltare/ Seduto ad ascoltare/ Sono andato a scuola ed ero molto nervoso/ Nessuno mi conosceva/ Nessuno mi conosceva/ Salve, prof, dimmi qual è la mia lezione/ Mi guardi attraverso/
Mi guardi attraverso/ E trovo un pò buffo/ e trovo un pò triste/ che i sogni in cui muoio/ sono i più belli che abbia mai fatto/ E trovo difficile da dirti/ E trovo difficile da sopportare/ quando la gente corre in circolo/ E' davvero/
Un mondo folle/ Un mondo folle/ Allargato nel tuo mondo/ Un mondo folle

@ Director


Le nevrosi degli individuo partecipano la nevrosi della cultura nei termini in cui essa è frutto di meccanismi dei difesa (ed i loro prodotti) dell'individuo da sempre, dalla nascita della sua individualità autocosciente in mezzo al gruppo. Voglio dirla grossa e rozza, ma sono convinto...estremamente vera e non vi è giudizio di bene o male: dopo la nascita della stampa, della fotografia, con l'avvento della radio, quello della televisione, dei mezzi di comunicazione multimediale ed internet qualcosa di specifico è profondamente cambiato. Prima di questa grande rivoluzione della comunicazione, prima che un segnale morse impiegasse un manciata di pochi secondi a fare il giro del mondo e tornare al punto di partenza, l'individuo aveva riti privati e collettivi ad arginare solitudine e senso di morte dietro ad esso. Dopo i riti ed i rituali (cose ben diverse sappiamo) sono cambiati ed ancora, in questa fase di passaggio, stentano rumorosamente a funzionare.
Urlare il proprio dolore allo specchio di una camera che ti riprende dentro alla stanza del Grande Fratello, costituisce, da un punto di vista sociologico, solo un urlo di risposta a quello più grande che, inevaso, si è determinato nella cultura del nostro tempo. Non aiuta quello privato, non dà sollievo a quello dell'uomo che piange nascosto. Del bambino incompreso nei suoi bisogni. No One Knew Me. " I miti ci guardano costantemente e noi dobbiamo riuscire a sostenerne lo sguardo" afferma Hilmann; bisogna riconoscerli dietro le maschere dei nostri moderni oggetti di desiderio.
La nevrosi della nostra cultura crea bisogni e risposte a questi e come pensa un grande uomo come Hilmann, non armonizza le domande e le risposte del singolo con il collettivo. Questo è un discorso ampio, difficile, a cui in questa sede si può alludere, ma certo non trattare compiutamente, ma serve alla elaborazione del successivo concetto. La drammaterapia ed altre discipline in prezioso inesauribile bilico tra le scienza psicologica e quella umanistica, obbliga al recupero di quella riflessione che esplora il viaggio costante tra l'individuo ed il gruppo attraverso le creazioni della cultura. Lo accompagna, mentre affina i suoi strumenti d'indagine, dà finalmente "dignità" al suo "drama", tentando di spogliarlo delle apparenze e dei travestimenti comodi e spesso mistificanti e, come si discuteva ieri con Maria Pina, rende l'individuo "creatore" e non solo "fruitore" del suo tempo. E' questo riappropriamento dei sentimenti e delle loro ombre (buone quanto le nostre ali) a lavorare nei nostri laboratori ed oltre.

sabato 13 novembre 2010

DRAMMATERAPIA & FINZIONE


CDIOT, Director alla Introduzione di "The Things Go Wrong,
 riduzione drammaterapica di E. Gioacchini da "Il Rinoceronte
 di E. Ionesco, 2009

Nel lavoro con la drammaterapia ed ancora di più nel Creative Drama In-Out Theatre, l'attore, nell'incontro con la "finzione", sperimenta costantemente una difficoltà e parallelamente deve esercitare uno specifico impegno: è richiesto che la recitazione lo attraversi, modulandosi attraverso i suoi personaggi interni, nella maggior parte dei casi (certamente all'inizio del lavoro) sconosciuti. Qualsiasi sia la tecnica attoriale di insegnamento/addestramento, dunque il tipo di teatro, la finzione è certamente funzionale ad una buona recitazione; si lavora con essa e costituisce per l'attore il target principale nell'incontro con l'espressione della propria personalità artistica. Un percorso lungo, durissimo, appassionante, che quasi sempre, se riuscito, ad un certo punto della carriera, giunge quasi a fondersi con la persona e la sua identità, come accade per tutte le professioni che comportano un certo "lavoro interno".
Foto di scena da The Things go Wrong,
 riduzione drammaterapica dal "Il Rinoceronte"
 di E. Jonesco, CDIOT 2009
Nel caso della drammaterapia, invece, vi è il costante rischio che la "recitazione" costituisca la peggiore "stampella" teatrale, un appoggio facile (quanto si è più dotati in essa) che si allea alle resistenze dell'interprete; che impedisce che il soggetto teatrale (la drammaturgia) affondi, come un bisturi, nell'espressioni più intime di lui, dunque che si "imbeva" sua anima, elicitando ombre e luci. Memoria della drammaturgia, uso della voce e del movimento, dovrebbero costituire, ad un determinato punto del percorso in drammaterapia, abilità a disposizione dell'interprete che non lo distraggano dal lavoro con il proprio Io più profondo, con quello del processo drammaterapico e della catarsi. Se questo è il punto di arrivo (e necessita di una attenta disciplina e pratica), nella realtà iniziale dello stesso percorso è invece proprio nell'empasse, spesso "drammatica", con le proprie difficoltà che si presta l'utile lettura di quanto non visibile ed evocabile e, come dicevo, maggiore è il rischio che l'allievo s'inganni con l'idea che fare una buona performance significhi aver fatto lavorare bene il processo drammaterapico. L'apparente paradosso è costituito dal compito di essere "veri" attraverso l'essere "finti": un labirinto di temute percezioni di sè, nuovi aspetti della propria personalità, disillusioni e dinamiche sconosciute tendono ad affacciarsi ed allora è confortante l'appoggio al testo, il suo studio letterale, il divieto interno a "sdoganare" risorse ed energie.

Foto di scena da "Il Kamikaze", Edizione 2009,  CDIOT 2009
Se quanto appena illustrato fa parte di quanto accade nel setting drammaterapico (sia clinico che orientato nel campo formativo/educativo), abbiamo proprio nel Creative Drama & In-Out Theatre la possibilità che questi pericolosi shortcuts verso la performance drammaterapica si attuino. Infatti, nella drammaterapia il fuoco è costantemente tenuto sul lavoro drammaterapico all'interno del processo specifico e questo permette una costante tenuta del registro del proprio coinvolgimento o tradimento, tra autodisciplina ed interventi del director. Nel teatro drammaterapico, invece, è proprio questo contestuale spostamento del lavoro dei laboratori anche nella direzione della piece finale che può costitutire l'abbaglio all'obiettivo principale: il lavoro con se stessi attraverso il rituale ristretto (il gruppo) e quello allargato (gli spettatori). La preparazione della performance davanti al pubblico fa ripiegare il narcisismo sulle dinamiche dell'"apparire", piuttosto che del funzionare attraverso il processo drammaterapico e le posizioni a cui è giunto. L'intenzione "etica" della drammaterapia rischia, in poche parole, di slittare in quella "estetica". Vale ricordare, a tal proposito, che anche la "piece drammaterapica" costituisce un grande laboratorio di drammaterapia, dove, al gruppo ristretto dei partecipanti, si aggiunge quello tipico del pubblico come nel teatro, la dimensione più volte ricordata dello "spettacolo" così come, per nostra adozione, l'intendeva Grotowsky. Ciò che differenzia poi il prodotto finale è che nel nostro contesto il lavoro di "preparazione e studio" è avvenuto attraverso la metodologia propria della drammaterapia e nel particolare coinvolgimento che si attua con il pubblico vi è l'importante riattualizzazione di quanto già lavorato nel gruppo ristretto ("rituale ampio").

giovedì 11 novembre 2010

Drammaterapia: Bluebeard



trailers, 18 marzo 2010
BLUEBEARD
Release Date: 18 February 2010

Genre: Fantasy Cast: Dominique Thomas, Lola Créton, Daphné Baiwir, Marilou Lopes-Benites Director: Catherine Breillat Writer: Catherine Breillat Studio: Strand Releasing Plot: Based on Charles Perraults grisly fairytale, Bluebeard tells the story of young Marie-Catherine, child bride to an aristocratic ogre with a reputation for murdering his wives. Controversial director Catherine Breillat (The Last Mistress, Fat Girl, Romance) brings her personal touch to this classic tale, a favorite of good little French girls since the 1950s. Princess Marie-Catherine must employ all her cunning to outwit her husband and escape the most unpleasant of fates. An Official Selection at the New York Film Festival 2009.

mercoledì 10 novembre 2010

Drammaterapia: Barbablù dietro una Chiave

DRAMMATERAPIA & EMPATIA, Dentro, Fuori, Dentro le Vicende



Una femmina di animale può prendersi cura di un cucciolo di un'altra specie. Affermare che questo comportamento sia dettato dall'empatia e dall'amore è errato; ma quanto di quelle due specie vive anche in noi, perchè dovuto agli istinti, ci porta a parlare di sentimenti ed entro certi limiti, tuttavia, ce lo concediamo. Sappiamo, però, che l'amore, nella specie umana, attraversa la coscienza dell'Io e si fa arbitra anche di modulare l'istinto, persino di contravvenirlo. Che la fonte essenziale del moto d'animo che ti porta a soccorrere l'altro, ad ascoltarlo, a leggere le sue domande, anche silenziose ,sia un istinto e che forse il suo antenato più lontano possa anche essere la "simpatia" di una roccia di cristallo che catalizza una reazione organica e fa virare la luce che colpisce quell'amminoacido a sinistra (levogiro), non ci deve troppo scandalizzare! Come non deve scandalizzare che un individuo, potenzialmente "giusto", diventi a causa di vicende familiari, sociali, politiche un nazista. Ci può preoccupare, questo sì. Poi, superarata la vicenda, che poneva due esseri sulle due diverse sponde di uno stesso fiume, tutto appare incredibilmente diverso.
Empatia, quella che nasce da sentimenti che maturano od anche improvvisa, che pesca in risorse e pensieri mai confessati neanche a noi stessi. Quando accade, accade un dono; come un miracolo, non è dovuto e non ha un donatore ed un ricevente, ma due persone insieme a condividerlo. Ed è altamente contagioso!

Fonte: il video mi è inviato da Eny Meltzer, nostra corrispondente per l'America Latina, amministratore del Taller di Dramaterapia Mente Abierta del nostro network di blogs

DRAMATHERAPY WORKSHOPS (2004-2009)

Ciclo di Conferenze-Dibattito 2010, aperte al pubblico

organizzate dall' Atelier di Drammaterapia Liberamente -h. 20,00,in sede-

-09 aprile, Il Teatro che cura, dal drama alla drammaterapia + Laboratorio
-07 maggio, La lezione di Grotowsky + Laboratorio
-04 giugno, la Cinematerapia e la Cinema-dramaterapia + Laboratorio
-02 luglio, l'Hypnodrama + Laboratorio: il Ritorno del Padre
(nuova programmazione a settembre)

Gli incontri, aperti su prenotazione, condurranno i partecipanti lungo un percorso informativo, spesso provocatorio e divertente, tra le possibilità e le risorse della mente. I seminari e le conferenze -a carattere educativo e divulgativo - sono indirizzati ad pubblico non professionale, ma anche a tutti coloro che desiderano approfondire la conoscenza della Drammaterapia, quindi educatori, operatori sociali, insegnanti, medici e psicologi La partecipazione agli incontri è gratuita, su prenotazione alle pagine del sito o telefonando alla segreteria scientifica, tel. 340-3448785 o segnalandosi a info.atelier@dramatherapy.it

COMUNICATI STAMPA