@ Pino
Sono sicuro che, se mi sedessi sulla poltrona che è lì sulla destra, riuscirei a pronunciare poche parole abbozzate. Non ho fiato. Le parole sono morte dentro. Non escono fuori nemmeno a pagarle. Nessun incontro galante, nessuna gita o altro evento emozionante potrebbe restituire ciò che non si possiede.Tento, con i ricordi di queste ultime serate passate con il gruppo. Mi colpiscono le immagini e le foto del kamikaze che si fa esplodere: il corpo del designato anche se smembrato da una deflagrazione può ricomporsi attraverso l’incontro con l’altro. Piccoli pezzetti raggiungono il loro posto assegnato perché attraverso l’altro, il corpo se ne riappropria. Dal tuono dell’esplosione, si liberano colori inaspettati. Il kamikaze sembra sicuro di sé, deciso, orientato verso un ben definito obiettivo. Le sue disastrose convinzioni toccano la fragilità degli affetti familiari e se ne nutrono. Quanta disperazione, quanto dolore, quanto sangue versato inutilmente. Se solo potesse prevalere la pace, se tutti fossimo portatori di pace. Perché l’arma “dell’uomo-bomba” contro le negazioni dell’uomo? Perché chi ha subito o subisce un torto risponde con un’azione altrettanto oltraggiosa? Quella società sembra aver perso il rispetto dei sentimenti primordiali.
Foto: Dramatherapy, Catharsis , Laboratorio Atelier LiberaMente su "il Kamikaze", ottobre 2009
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