L’Ordine Scomposto del Tempo di Guerra, quello degli affetti e quello delle cose. Strade che diventano pericolose nel Rinoceronte di Ionesco.
Relazioni che si scuciono con la velocità di un ago che vada al contrario ed oggetti che cadono o vengono lanciati.
La scarsa “visibilità” di quanto realmente sta avvenendo diventa quella della povere sollevata fuori e dentro, negli uffici, nelle case, sempre più dentro nelle anime.
Porte devastate, usci moltiplicati in virtù di cornate feroci ed improvvise; luoghi in fondo cambiati, oltre le persone.
La guerra che si gioca in questa drammaturgia ha una sola baionetta finale, tutta da giocare, quella di Berenger, imbracciata alla fine, ma si svolge tra polvere e frastuono fuori e dubbio e paura della follia dentro.
Guerra-Polvere-Fracasso, Guerra dentro la Psicologia dell’Uomo.
C’è chi ha detto che Ionesco nel suo Rinoceronte rifugga un approccio psicologico. In effetti, vi sono solo due accenni alla psicologia e qualcuno in più alla follia. Ma dissento da questa impostazione critica, che guarda al letterale. Il parossismo della logica che si morde la coda in cerca di un approdo confortante, almeno un appiglio contro la deriva dall’accadimento, la sterilità finale di tante relazioni spazzate via, tutto questo si offre ad essere "rivestito" di sentimento, da noi che l’osserviamo, destinatari di questa intensa lettura, che scorre sotto i nostri occhi con la leggerezza del non-sens. Voglio dire, troverei allo stesso modo “romantico” un appendiabito che morbido fosse lì piegato nell’attesa di una morbida veste di donna o sciarpa di uomo, anche se si dovesse attendere cent’anni. Loro, i personaggi, si aggirano come zobie in cerca di anima. Tutti i loro moti d’animo, collerico, apprensivo, tragico, curioso, rabbioso si spengono sempre quando nella “relazione” l’altro non percepisce, non “sente” e comunica formalmente, risponde appunto “logicamente”. L’empatia è bandita in questa opera, mentre a Berenger, invece, è dato -unico esemplare umano- il privilegio di accorgersi dei propri ed altrui sentimenti e di rifletterli, di poterli scegliere, nella tragedia –quella sì vera- di non poter “fare anima” con alcuno, di perdere progressivamente tutti gli interlocutori possibili del “dialogo”. Infatti, i dialoghi sembrano declamare la separazione delle anime, il reticolato intorno al recinto delle proprie idee, infrazionando il senso di un autentico-individuale che non può non validarsi all’interno di un collettivo.
Mentre tutti cercano di “ragionare”, non si ragiona più! Per questo il ripetuto accenno alla follia ed alla sua paura da parte di Berenger, di Daisy, o di psicopatologie come le allucinazioni…a giustificare la morte della convivenza libera. Qualcosa sovra-determina il destino individuale; un “comunismo”, un “fascismo”, un totalitarismo, un assolutismo linguistico si fa interprete del benessere di tutti e di ognuno, vuole affermare Ionesco. Un'intensa –apparentemente descrittiva, scarna ed “apatica”- solitudine pervade i personagg. Essa è collettiva. il dialogo è perso, il logos impriginato avviluppato se stesso. In modo differente, ma la stessa disintegrazione del relazionale che pervade tutta l’opera Beckett. Ecco perché trovo questa pieces intensamente psicologica, -anche se denudata di ogni didascalia introspettiva- perchè lamenta costantemente l’assenza dell’altro da Sé.
Relazioni che si scuciono con la velocità di un ago che vada al contrario ed oggetti che cadono o vengono lanciati.
La scarsa “visibilità” di quanto realmente sta avvenendo diventa quella della povere sollevata fuori e dentro, negli uffici, nelle case, sempre più dentro nelle anime.
Porte devastate, usci moltiplicati in virtù di cornate feroci ed improvvise; luoghi in fondo cambiati, oltre le persone.
La guerra che si gioca in questa drammaturgia ha una sola baionetta finale, tutta da giocare, quella di Berenger, imbracciata alla fine, ma si svolge tra polvere e frastuono fuori e dubbio e paura della follia dentro.
Guerra-Polvere-Fracasso, Guerra dentro la Psicologia dell’Uomo.
C’è chi ha detto che Ionesco nel suo Rinoceronte rifugga un approccio psicologico. In effetti, vi sono solo due accenni alla psicologia e qualcuno in più alla follia. Ma dissento da questa impostazione critica, che guarda al letterale. Il parossismo della logica che si morde la coda in cerca di un approdo confortante, almeno un appiglio contro la deriva dall’accadimento, la sterilità finale di tante relazioni spazzate via, tutto questo si offre ad essere "rivestito" di sentimento, da noi che l’osserviamo, destinatari di questa intensa lettura, che scorre sotto i nostri occhi con la leggerezza del non-sens. Voglio dire, troverei allo stesso modo “romantico” un appendiabito che morbido fosse lì piegato nell’attesa di una morbida veste di donna o sciarpa di uomo, anche se si dovesse attendere cent’anni. Loro, i personaggi, si aggirano come zobie in cerca di anima. Tutti i loro moti d’animo, collerico, apprensivo, tragico, curioso, rabbioso si spengono sempre quando nella “relazione” l’altro non percepisce, non “sente” e comunica formalmente, risponde appunto “logicamente”. L’empatia è bandita in questa opera, mentre a Berenger, invece, è dato -unico esemplare umano- il privilegio di accorgersi dei propri ed altrui sentimenti e di rifletterli, di poterli scegliere, nella tragedia –quella sì vera- di non poter “fare anima” con alcuno, di perdere progressivamente tutti gli interlocutori possibili del “dialogo”. Infatti, i dialoghi sembrano declamare la separazione delle anime, il reticolato intorno al recinto delle proprie idee, infrazionando il senso di un autentico-individuale che non può non validarsi all’interno di un collettivo.
Mentre tutti cercano di “ragionare”, non si ragiona più! Per questo il ripetuto accenno alla follia ed alla sua paura da parte di Berenger, di Daisy, o di psicopatologie come le allucinazioni…a giustificare la morte della convivenza libera. Qualcosa sovra-determina il destino individuale; un “comunismo”, un “fascismo”, un totalitarismo, un assolutismo linguistico si fa interprete del benessere di tutti e di ognuno, vuole affermare Ionesco. Un'intensa –apparentemente descrittiva, scarna ed “apatica”- solitudine pervade i personagg. Essa è collettiva. il dialogo è perso, il logos impriginato avviluppato se stesso. In modo differente, ma la stessa disintegrazione del relazionale che pervade tutta l’opera Beckett. Ecco perché trovo questa pieces intensamente psicologica, -anche se denudata di ogni didascalia introspettiva- perchè lamenta costantemente l’assenza dell’altro da Sé.
Torniamo alla Guerra. Quella che si opera nella testa dell’uomo qualunque, cosi’ qualunque che può essere dotato sia di poco buon senso e perfino dedito all’alcool, povero il nostro Berenger! E’ lo scandaglio che suona a vuoto nelle psicologie sterili di “contatto” di questi umani quasi “predestinati” alla rinocerontite, fascismo o comunismo che sia, totalitarismo certamente, lo abbiamo detto! Per questo dobbiamo concedergli –prezzo esatto dalla strutturazione dell’opera- che anch’egli debba sentirsi quasi “predestinato” alla fine. Lì si gioca il drama –passaggio già discusso- di quel chiedersi angoscioso o gioioso “possibile che stia capitando…proprio a me?!”. Lo individuo quale "drama" perché è un interrogativo tutto "agito" in assurdo in questa’opera che definisco al servizio dell’umanesimo; la possibilità di recupero dell’individuo e della sua originalità, a costo che debba essere mortificata e persa; tuttavia era!
Afferma Ionesco: “ …oser ne pas penser comme les autres “ ( E. Ionesco, Antidotes, Paris, Gallimard, 1977, p.11)
Guerra alle silenziose prigionie dell’uomo –le sue paure e, di converso, ambizioni- che lo inducono a crearne di visibili e sciagurate nel consesso civile. Ed insieme Guerra alla convenzione sociale e familiare che spoglia di autenticità il vivere potenzialmente libero. Eppoi ’autoreferenzialità della cultura che si ciba di se stessa, nutrimento come raison d’etre, che finisce per appagare senza far interrogare l’Uomo, molte volte, con le stesse domande -lo vogliamo!-. Lo vogliamo vero, Plinio, confortami amico?
Non verità scolastica, né ermeneutica della Vita o –peggior crimine non esiste- del diritto ad essa!! Essa pre-esiste alla discussio sul suo diritto. "Eine Ausdrucht hat nur im Strome des Lebens Bedeutung" … “Un'espressione ha significato solo nel flusso della vita” afferma Wittgestein (1949 - citata da Malcom 1958) e ciò che paradossalmente fluisce nel Rinoceronte è solo la tragedia dell’evento trasformativo, senza la quale tutto sarebbe pericolosamente immoto! Terribile ad essere considerato! Senza lo spettacolare ed inatteso, la piccola cittadina rimarrebbe incartata tra tradizione, consuetudine, abitudine, apparato burocratico e piccoli vizi di provincia! La provincia segregata dei nostri desideri e speranze, risorse e limiti. Questo, a mio parere, è il profondo assurdo della piece: che la Vita abbia un’occasione di rispecchio e risveglio attraverso la tragedia, l’omologazione e poi la ribellione. La resistenza -non ideologica- alla trasformazione passiva, verso il cambiamento attivo.
Quanto desolatamente si deve essere grati alla forza del perturbante per farci interrogare… Quanto differentemente, questo stesso, il Perturbante, nell’arte –arte drammatica in questo caso-, avviene senza spargimento di sangue… In un saggio ancora ad oggi non pubblicato di Aldo Carotenuto, si ribadisce la delega della cultura all’Arte come difesa dell’Uomo, ma direi ancor prima la delega da parte del suo bisogno più profondo di trascendenza. L’autore mi dette il saggio tre anni prima di venire meno, in occasione di uno storico convegno su “Arte & Follia” che organizzai a Roma. Egli scrive così, acutamente…-ancora lo ringrazio-:
Arte e teatro, poesia e scrittura, cinema e musica, sono modalità intermedie attraverso le quali il mondo viene ricreato, ma con una finalità, con una motivazione, con un "alibi", che allontani lo spettro dell'incoerenza. Assistere ad un monologo in teatro è cosa altra dall'assecondare il soliloquio di uno psicotico. Ma è cosa altra solo nella misura in cui è il fondale ad essere differente, è lo sguardo dell'altro a conferivi un significato dissimile a seconda della propria aspettativa. E ogni aspettativa si fonda su una serie di esperienze pregresse, che fanno si che un palcoscenico sia il luogo più appropriato per fingere di essere re (Aldo Carotenuto, 2003).
Lo”spettro dell’incoerenza”, l’ombra delle nostre paure, quella della “fine”, fondamentalmente.
Non vi sono suggerimenti di Terapia in Ionesco del Rinoceronte, né possiamo credere che l’individualismo apparentemente eroico del Berenger sia la lezione che I'autore vuole darci. Ma “ricerca” e questa comporta rischio, dedizione, passione a monte. Il nostro "processo drammaterapico" si sta facendo vettore di questi elementi per approdare ad una rivisitazione formalizzata del “Rinoceronte”; la licenza poetica è propria di questo processo che fa attraversare le tematiche attraverso voi attori, in un laboratorio più silenzioso che di prove di scena. Quelle verranno, dopo la formalizzazione della piece ed il suo studio. Allora, la vostra re-interpretazione attingerà a quanto il processo ha misteriosamente e consapevolmente già scritto dentro il lavoro collettivo/individuale –i vostri post lo hanno mostrato. Lo sottolineava bene il nostro caro ospite del DAMS, lo scorso venerdì, questa passa anche per uno stato di coscienza diverso, appunto modificato.
Questo io intendo per “processo creativo” e per “drama”, questo io ho chiamato Creative Drama & In-Out Theatre. Buon lavoro, Director
1 commento:
Ciao Ermanno, ciao amici del gruppo, sono Grazia (l'ospite del vostro ultimo gruppo di incontro del venerdì), e vorrei esprimervi i miei pensieri riguardo questo lavoro fantastico che state (o stiamo) svolgendo. Trovo molto interessanti le considerazioni del capo (Ermanno), e mi piace molto il fatto che si possa spaziare in una materia così vasta e così ricca di realtà e sentimento.
Mi chiedo se l'uomo poi, alla fine di tutto, non è solo quando nasce e quando muore? Ciò mi fa riflettere sul fatto che i sentimenti di ognuno di noi devono fare i conti con ciò che ci circonda e con il momento storico e con il momento personale in cui essi sono vissuti, e ciò non sempre coincide perfettamente con quello che ognuno di noi desidera.
Forse, alle volte, nella vita come in questo dramma di Ionesco, i disastri, gli avvenimenti che in qualche modo ci distruggono, hanno il senso, importantissimo ed imprescindibile, della rinascita, della ricostruzione che vuol dire tornare a vivere, e come dice il capo, non sensi di colpa, ma ripetere, rinnovare, metterci qualcosa di diverso!!!
Inoltre, mi è venuta un'idea per quanto riguarda la rappresentazione teatrale: sarebbe bello mettere in scena due personaggi di Berenger, proprio per valutare in la contrapposizione la scelta di "esserlo" e "non esserlo", per valutare gli stati d'animo che ciò comporterebbe.
Grazia
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