@ Director
a proposito di "La Stanza dell'Insperata Speranza"
“Non ci sto! La parodia brillante e specchiata della tua vita puoi gettarla in uno stagno e saranno i ranocchi a gracidare su essa!”- Davvero non ne poteva più, quell’inconscio smarrito, sempre in bilico tra l’essere e l’essere immaginato. Con rabbiosa violenza stava scagliando sassi in mezzo all’umidità delle lacrime ed il viso del Capitano aveva ora rivoli come fiumi a percorrere le rughe assolate. Ma lui che poteva farci? Non si dice che nei sogni è la riparazione del giorno, quel lenzuolo di pietà che tinge di luminoso ed oscuro, ma ti consola di lasciarlo sulle spalle, magari per poi tornarci. Era il Capitano, ora, a non starci più! Indiviso tra mari da percorrere e procelle in cui aveva davvero pericolato. Eppure l’inconscio si ribellava ed aveva ragione…
“Cosa pensi di apparecchiare sulla tavola del mio Stanza? Non sono stato io ad indorare la tua alba! E non ti conforti che sia durata solo tre secondi… Posso darteli d’inferno o paradiso, ma non confortano, essi sono!”- Non era il sogno ad essere in questione, ma il compiacimento, l’indennizzo perverso cercato in messaggi che altro vogliono dire, a cercarlo. E l’inconscio incalzava –“Credi che il sogno di un pazzo non sia anch’esso pazzo? Che i rumori della notte non siano rubati casualmente nelle mie stanze? Neanche a Freud ho permesso di accomodarsi del tutto tranquillo sul mio sofà, meno morbido del suo nella Vienna del primo novecento. Era di latta, quel lettino, coperto di cuscini e prometteva comprensione con il budge della nuova scienza psicologica. Il budget non crea l’ufficio! Il mio luogo è il verbo ed è sempre esistito, ha fatto sempre sognare anche a tua insaputa e soprattutto ti ha permesso di dimenticare. Credi si possa andare per campi a selezionare i tuoi fiori, recintarli, farne scoperta e dimenticare che “infetta” è l’anima da sempre. L’infezione gli ha dato la vita, l’ha strappata al sonno di nessuno e fatto di essa un sogno reale…”.
“Cosa pensi di apparecchiare sulla tavola del mio Stanza? Non sono stato io ad indorare la tua alba! E non ti conforti che sia durata solo tre secondi… Posso darteli d’inferno o paradiso, ma non confortano, essi sono!”- Non era il sogno ad essere in questione, ma il compiacimento, l’indennizzo perverso cercato in messaggi che altro vogliono dire, a cercarlo. E l’inconscio incalzava –“Credi che il sogno di un pazzo non sia anch’esso pazzo? Che i rumori della notte non siano rubati casualmente nelle mie stanze? Neanche a Freud ho permesso di accomodarsi del tutto tranquillo sul mio sofà, meno morbido del suo nella Vienna del primo novecento. Era di latta, quel lettino, coperto di cuscini e prometteva comprensione con il budge della nuova scienza psicologica. Il budget non crea l’ufficio! Il mio luogo è il verbo ed è sempre esistito, ha fatto sempre sognare anche a tua insaputa e soprattutto ti ha permesso di dimenticare. Credi si possa andare per campi a selezionare i tuoi fiori, recintarli, farne scoperta e dimenticare che “infetta” è l’anima da sempre. L’infezione gli ha dato la vita, l’ha strappata al sonno di nessuno e fatto di essa un sogno reale…”.
Il Capitano stava ad ascoltare, passata la rivolta; non una parola pensata, giacché altre non ve n’erano, se l’inconscio strillava così forte. Poi, si decise, entrò anche lui convinto nella bottega e reclamò che gli fosse ridato il "dolore" e quelli, schiacciati dall’insolente richiesta, aggiunsero l’interesse del “pentimento”, della “rabbia”, del “rimpianto”.
Il volto era oramai asciutto, come asciutta l’anima ed i suoi risvolti. Ebbe cura che non si infangassero per la strada, sollevando la veste da un lembo. L’altro lato strusciava la terra, impunemente, tracciava il percorso fatto, ricordava silenzioso ciò che è stato.
Si svegliò. Un giorno normale, bagnato di pioggia leggera, soffiato dell’aria consumata del porto, che come un grande polmone respirava tra mare e terra, con la sensazione di aver sognato. Preparò la moka e rimase qualche istante a seguire il fumo del caffè nella tazza. Il vento era buono, la distesa d’acqua poco agitata “…lì, dove vive di luce propria un’emozione pulsante che mi percorre la spina dorsale e si fa linfa”.
Il volto era oramai asciutto, come asciutta l’anima ed i suoi risvolti. Ebbe cura che non si infangassero per la strada, sollevando la veste da un lembo. L’altro lato strusciava la terra, impunemente, tracciava il percorso fatto, ricordava silenzioso ciò che è stato.
Si svegliò. Un giorno normale, bagnato di pioggia leggera, soffiato dell’aria consumata del porto, che come un grande polmone respirava tra mare e terra, con la sensazione di aver sognato. Preparò la moka e rimase qualche istante a seguire il fumo del caffè nella tazza. Il vento era buono, la distesa d’acqua poco agitata “…lì, dove vive di luce propria un’emozione pulsante che mi percorre la spina dorsale e si fa linfa”.
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