Il cono d’ombra attraversò velocemente la storia ed il tempo lento della sua mente sembrava allungarlo all’infinito. Eclissi periodica e capricciosa, con l’assenza delle mani che scaldano la terra e questa lo sguardo. Elena si ritirò nella sua stanza. Aveva visto cose ben conosciute, ancora una volta le aveva trascritte nella memoria oramai piena. Pieghe affollate delle solite immagini, voci, persino dell’atmosfera umida di quei giorni di autunno inoltrato, senza più la speranza di durare, sepolto dall’inverno. Avrebbe potuto addormentarsi, farsi cullare dal dolore sottile che proveniva da ogni angolo spigoloso degli ultimi mesi, ma scelse il davanzale della finestra, la muta sarabanda di persone in moto, formichine in bilico, nel desiderio di salvarle o schiacciarle. Perché il silenzio dona questo privilegio. Ricorre al tuono o allo schiumoso scendere negli abissi.
Elena non sapeva, ma stava cercando, spogliando di vesti ormai pigre la vita che sentiva o almeno quella rimasta. Verginale desiderio di fuga ed abbandono al giuoco degli eventi, purchè nuovi. Odore di nulla conosciuto, mentre confortante era quello del quadratino di pelle, sul polso, umida di occhi molto stanchi.
Poi, un guizzo, un rapido dietrofront dell’abbandono ormai iniziato. E se stanchezza fosse vita? Se fosse stata proprio quella resa cosciente alle cose, troppe e diverse, il segnale del via? Forse non c’era un mare da rendere calmo e assolato, piuttosto bisognava tuffarcisi dentro, sconvolgere i moti vorticosi sino a farli impallidire del proprio coraggio, usare il tono stanco di quei giorni come una mazza d’acciaio o una pala gigante a bastonare l’acqua, abitandovi forte. Rabbrividì. Tutta. Dal polso ancora luccicante alla tempia destra, quella che il suo gomito preferiva da sempre, quando assorta.
La linea della vita, quella fisica, sopra le anche coperte da una lunga gonna piangente, e quella che conosceva si paravano di fronte; spinse il suo corpo più avanti, verso il vetro, che accettò quel vapore curioso verso il fuori. Lui stava passando lì’, sembrava aver fretta, forse troppa per la discussione appena avuta, pigra anch’essa, qualche minuto prima. No, non era lui che si allontanava, ma il vetro, la finestra, l’umida aria malsana di una stanza troppo chiusa o troppo poco gelosa dei segreti gemiti di un amore disabitato da tempo. Era il suo stomaco e la fronte e forse anche il piede sinistro che stavano correndo. Non più via, ma verso. Elena accettò d’improvviso l’incognita dei segnali, la segnaletica delle incognite, l’apparente ventaglio di correnti ora aeree, sopra la superficie del mare. Dondolò per qualche istante, più fuori che dentro, scivolando piegata a carponi dalla lunga ombra lì accanto.
Foto: Caspar David Friedrich (1774-1840), Donna alla finestra.
Elena non sapeva, ma stava cercando, spogliando di vesti ormai pigre la vita che sentiva o almeno quella rimasta. Verginale desiderio di fuga ed abbandono al giuoco degli eventi, purchè nuovi. Odore di nulla conosciuto, mentre confortante era quello del quadratino di pelle, sul polso, umida di occhi molto stanchi.
Poi, un guizzo, un rapido dietrofront dell’abbandono ormai iniziato. E se stanchezza fosse vita? Se fosse stata proprio quella resa cosciente alle cose, troppe e diverse, il segnale del via? Forse non c’era un mare da rendere calmo e assolato, piuttosto bisognava tuffarcisi dentro, sconvolgere i moti vorticosi sino a farli impallidire del proprio coraggio, usare il tono stanco di quei giorni come una mazza d’acciaio o una pala gigante a bastonare l’acqua, abitandovi forte. Rabbrividì. Tutta. Dal polso ancora luccicante alla tempia destra, quella che il suo gomito preferiva da sempre, quando assorta.
La linea della vita, quella fisica, sopra le anche coperte da una lunga gonna piangente, e quella che conosceva si paravano di fronte; spinse il suo corpo più avanti, verso il vetro, che accettò quel vapore curioso verso il fuori. Lui stava passando lì’, sembrava aver fretta, forse troppa per la discussione appena avuta, pigra anch’essa, qualche minuto prima. No, non era lui che si allontanava, ma il vetro, la finestra, l’umida aria malsana di una stanza troppo chiusa o troppo poco gelosa dei segreti gemiti di un amore disabitato da tempo. Era il suo stomaco e la fronte e forse anche il piede sinistro che stavano correndo. Non più via, ma verso. Elena accettò d’improvviso l’incognita dei segnali, la segnaletica delle incognite, l’apparente ventaglio di correnti ora aeree, sopra la superficie del mare. Dondolò per qualche istante, più fuori che dentro, scivolando piegata a carponi dalla lunga ombra lì accanto.
Foto: Caspar David Friedrich (1774-1840), Donna alla finestra.
La foto è stata tratta dal sito http://mondodomani.org/mneme/s3ik0.htm con la seguente didascalia per la quale non possiamo che rallegrarci, perchè il pensiero ESISTE: Friedrich fu caratteristico per le raffigurazioni di paesaggi simbolici. Il quadro della donna alla finestra è un caso inconsueto nella sua produzione: un interno semplice e dimesso, che non lascia osservare né la donna, né ciò che la donna sta guardando. Si tratta di un modo originale per lasciare allo spettatore il compito di pensare ciò che sta oltre, nella consapevolezza dei limiti della propria percezione.
Il quadro rispecchia così uno degli elementi centrali della filosofia di Kant: la certezza che la conoscenza umana è sempre molto più limitata del suo pensiero, la cui ampiezza lo costringe tuttavia a non dimenticare quel mondo nel quale la libertà e la moralità hanno un senso.
Il quadro rispecchia così uno degli elementi centrali della filosofia di Kant: la certezza che la conoscenza umana è sempre molto più limitata del suo pensiero, la cui ampiezza lo costringe tuttavia a non dimenticare quel mondo nel quale la libertà e la moralità hanno un senso.
1 commento:
@ da PLINIO PERILLI
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Caro Ermanno,
è già la seconda volta quest'anno che mi "confronto" con Friedrich!... Una volta fu per lo copertina di un libro di poesie di una amica, Maria Luisa Munoz, che inserendo il famoso paesaggio roccioso con mare, visto al solito di spalle, sente e sentiva di aderire in pieno a questo famoso manifesto "romantico"... Curiosamente, a quell'uomo esploratore di verità, sturm und drang, lei dedicava e affidava l'intero suo cuore e palpito di donna. Ed ora all'incontrario, sono due uomini, tu e ora io, che cerchiamo di specchiarci in questo sguardo di donna perso verso un infinito chiarore di trasparenza - eppure anche celato, prigioniero di educazioni e addirittura architetture da interni, egregi riti, ruoli ed anditi borghesi... Dove guarda quella donna che tu chiami Elena, ed io magari potrei anche chiamare "cechovianamente" Nina? Da cosa fugge o si sospende, si trattiene, si sospinge, fugge e si fugge? Malinconica, certo, eppure va verso il chiarore. Strutturata, nei modi, nei gesti, nella forma mentis: eppure "cede", inclinanando tutto il peso da una gamba all'altra, inclinando forse insieme sogni e progetti, stupori e languori... Sempre bene ordinata, elegante, ben vestita, il maritino agiato e compunto, una figliolanza da carezzare e domare -e probabilmente la morte dentro. Al romanticismo erano permessi questi miracoli: di gridare alla luce e dannarsi l'ombra, di proclamare l'idealità e soffrire tante, troppe spine incarnate; di scrivere il terrestre, fedifrago "Faust" come ribaltato Prologo In Cielo... Kant sistemò, criticò e cementò, di volta in volta, la Ragion Pratica, la Ragion Pura e il Giudizio... Eppure a pensarci bene resta il più caldo e struggente di quei pensatori: il padre (anzi addiritura nonno ideale): di quelli che davano del Voi ai figli (o ai nipoti), eppure li educavano a vivere e a sentire...
Elena/Nina guarda dalla finestra: tu dici verso la strada: io ipotizzo un giardino; tu dici: formichine di passanti: io dico, bimbi che giocano. I maschi - i grandi - sono dietro o troppo avanti - come i secoli e gli anni da cui noi oggi guardiamo il quadro... Elena/Nina è un altro gabbiano che non può o non sa più volare, se non con quel suo sguardo benedetto, rinfrancato di luce. Ma sotto quel vestito, quel tepore borghese, ordinato, che fervore, che rapimento d'ali! Che voglia di sfidare i venti, salire da essi fino alle nuvole e oltre - magari per bussare non giù a Konisberg dal Professor Kant, ma direttamente, in via del Celeste, alla Dimora della Luce... L'unico barlume o bagliore di divino resta tutto in questo sguardo che immaginiamo senza vederlo, e prolunghiamo col nostro. Per anni mi sono sentito irrimediabilmente "romantico" e non mi curavo di uno sguardo che credevo il mio. Ora un altro dovere etico, m'insegna questa elegante donnina - e più di Herr Professor Kant: che la legge morale non è solo dentro di noi, ma nello sguardo, nell'amore delle persone che coabitano, convivono coi nostri voli avverati, tarpati o perfino rinunciati. E il cielo stellato può ribaltarsi a insediarcisi dentro,nella cupa volta del cuore. Una piccola, paziente forma d'amore: la finestra si chiude, eppure il cielo le resta dentro. La casa potrà, potrebbe tornare ad essere Residenza D'Amore. Si può piangere anche di gioia, e l'intensità, si sa, travalica i confini. Tutto il resto va bene per i Baci Perugina e gli spot pubblicitari da Mulino Bianco. Un amore vero è sempre sofferto, e sempre soffre a viversi. Soffre a dirsi e proclamarsi vero. Ogni vero Principe Drammatico prende per mano la sua Principessa lieta di esserlo, la sua Divina Commedia, e il sipario degli altri si chiude, armonioso d'ombra.
Plinio Perilli
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