(Per Lupo Luigi, tornato nel bosco delle nuvole)
Lupo che così ti sei chiamato,
hai scelto di immaginarti, rinchiuderti
o salvarti dalle torme feroci, taglienti
degli umani, sempre a caccia
di chi è solitario, s’incorona forse
proprio di gelo, nei regni dell’Inverno
che non ha stagioni e tutte a eco
le risucchia, le tempesta e annette
e consacra di un turbine bianco.
Tu enorme cucciolo smarrito,
stupefatto della tua stessa voce:
poi impaurito dal mondo, cui
ancora vorrebbe urlare il candore
iroso della neve, ululando chiamare
gli angeli, sconfiggere la fame
come chi è preda, e vuol predare
il destino… Preda solo di sé,
del passato corteccia da cui deriva
– nel folto, nel folto inenarrabile
di un bosco che come cibo divora
ogni bianca ala o utopia insanguinata,
il rito feroce che ci insegna a pregare.
Lupo tornato ora immemore nel bosco
delle nuvole, fra le abetaie di Dio,
tutte in pianto di resina, lacrime
freddate nei cuori. Ma puoi voltarti,
guairci altro amore!: solitario, solitario
come vero lupo che ha fame, scende a
sbranare i sogni, perché solo di essi
almeno può cibarsi. Visi, visi che ti
guardarono, corpi che ti sorrisero,
o forse donne ti ignorarono, perché
coi lupi non si gioca, anche se loro
in cuore si sentono eterni cuccioli,
smarriti nel bosco umano fuori
da ogni Eden, assetati di carezze,
dei denti aguzzi con cui li crebbero
altri lupi di padri, lupe di madri,
e per svezzarci ci morsero feroci,
ci insegnarono squarci, a divorare
carne, e non mai le ali degli angeli.
Nevica ancora e sempre, tutto ora
ci è bianco in cuore… Ti chiamo, mio
Lupo e divento lupo, guaisco parole
e t’assomiglio, ogni amico ti ulula,
ti cerca! Troppi alberi, troppi tronchi
ora ci separano, ma proprio il gelo
ci unisce, ci elegge a fitto branco libera-
mente esule… Finché il bosco è il cuore,
sale e scende come arcana, inarrivabile
montagna da vivere, da soffrire… Roccia
che già più morbidi ci guata, addormenta
i sogni, e neve che ovatta ogni passo,
ogni orma, zampa unghiata d’amore.
L’alzò Francesco, Santo impavido, baciandola
come un messaggio, un’ambasciata a Dio.
Che più feroce, più selvaggio ci resista
il cuore, vinca il mondo di Bene!,
scenda non più a impaurire, ma a
liberare finalmente i villaggi, i paesi sudditi
dei mostri buoni, occulti del Male. Gubbio
o Roma, Grottammare, le Marche o Palestina,
c’è una crociata che ti ha chiamato
dentro al cuore del baratro, dove collassa
il bianco, e cessa il battito, svolato, sbranato
nel suo stesso cielo, rintanato al Divino.
Lascia le orme, Lupo, o anche sangue di ali!
Le seguiremo dentro la fuga del buio
dalla luce, dell’orizzonte dal futuro,
della carezza artigliata, per un vero
bacio di fauci. Lupo meglio dell’Uomo,
che sa ringhiare, squarciare i cuori
fino a ritrovarci amore, preda invisibile…
Se sei una favola, la raccontavi vivendola,
teatralizzando i dubbi, radici nodose,
ereditate d’antico. Lupo sempre nuovo
d’archetipi, nell’inconscio irruente
che Jung studiò a bestiario, terapia
inconscia d’umano, mito che si sbrana.
Dicci il tuo bosco, Lupo, non più “uomo
dei lupi”, ma cucciolotto, bambino
strappatosi dalle fauci dell’inferno
– ma solo quello quaggiù, Ministero
dei Manichini Borghesi, degli Statisti Compìti
o perfino Teologi che ringhiano sociologie,
e ci affamano dentro altri inverni, boschi
di discariche. Lascia le orme: le seguiremo
fino al baratro imploso di ogni nuvola,
per bianchissima deriva onirica, trasmutati
in altri lupi o abeti che piangono i loro
cuori pazzi di resina, quest’incendio gelido
di lutto che invece insegna, infiamma calore…
E reclama, guaisce, sbrana per somma
fede, si addenta in bacio principesse,
guardiacaccia, santi; forse anche Dio.
5 luglio 2008, Plinio Perilli
Lupo che così ti sei chiamato,
hai scelto di immaginarti, rinchiuderti
o salvarti dalle torme feroci, taglienti
degli umani, sempre a caccia
di chi è solitario, s’incorona forse
proprio di gelo, nei regni dell’Inverno
che non ha stagioni e tutte a eco
le risucchia, le tempesta e annette
e consacra di un turbine bianco.
Tu enorme cucciolo smarrito,
stupefatto della tua stessa voce:
poi impaurito dal mondo, cui
ancora vorrebbe urlare il candore
iroso della neve, ululando chiamare
gli angeli, sconfiggere la fame
come chi è preda, e vuol predare
il destino… Preda solo di sé,
del passato corteccia da cui deriva
– nel folto, nel folto inenarrabile
di un bosco che come cibo divora
ogni bianca ala o utopia insanguinata,
il rito feroce che ci insegna a pregare.
Lupo tornato ora immemore nel bosco
delle nuvole, fra le abetaie di Dio,
tutte in pianto di resina, lacrime
freddate nei cuori. Ma puoi voltarti,
guairci altro amore!: solitario, solitario
come vero lupo che ha fame, scende a
sbranare i sogni, perché solo di essi
almeno può cibarsi. Visi, visi che ti
guardarono, corpi che ti sorrisero,
o forse donne ti ignorarono, perché
coi lupi non si gioca, anche se loro
in cuore si sentono eterni cuccioli,
smarriti nel bosco umano fuori
da ogni Eden, assetati di carezze,
dei denti aguzzi con cui li crebbero
altri lupi di padri, lupe di madri,
e per svezzarci ci morsero feroci,
ci insegnarono squarci, a divorare
carne, e non mai le ali degli angeli.
Nevica ancora e sempre, tutto ora
ci è bianco in cuore… Ti chiamo, mio
Lupo e divento lupo, guaisco parole
e t’assomiglio, ogni amico ti ulula,
ti cerca! Troppi alberi, troppi tronchi
ora ci separano, ma proprio il gelo
ci unisce, ci elegge a fitto branco libera-
mente esule… Finché il bosco è il cuore,
sale e scende come arcana, inarrivabile
montagna da vivere, da soffrire… Roccia
che già più morbidi ci guata, addormenta
i sogni, e neve che ovatta ogni passo,
ogni orma, zampa unghiata d’amore.
L’alzò Francesco, Santo impavido, baciandola
come un messaggio, un’ambasciata a Dio.
Che più feroce, più selvaggio ci resista
il cuore, vinca il mondo di Bene!,
scenda non più a impaurire, ma a
liberare finalmente i villaggi, i paesi sudditi
dei mostri buoni, occulti del Male. Gubbio
o Roma, Grottammare, le Marche o Palestina,
c’è una crociata che ti ha chiamato
dentro al cuore del baratro, dove collassa
il bianco, e cessa il battito, svolato, sbranato
nel suo stesso cielo, rintanato al Divino.
Lascia le orme, Lupo, o anche sangue di ali!
Le seguiremo dentro la fuga del buio
dalla luce, dell’orizzonte dal futuro,
della carezza artigliata, per un vero
bacio di fauci. Lupo meglio dell’Uomo,
che sa ringhiare, squarciare i cuori
fino a ritrovarci amore, preda invisibile…
Se sei una favola, la raccontavi vivendola,
teatralizzando i dubbi, radici nodose,
ereditate d’antico. Lupo sempre nuovo
d’archetipi, nell’inconscio irruente
che Jung studiò a bestiario, terapia
inconscia d’umano, mito che si sbrana.
Dicci il tuo bosco, Lupo, non più “uomo
dei lupi”, ma cucciolotto, bambino
strappatosi dalle fauci dell’inferno
– ma solo quello quaggiù, Ministero
dei Manichini Borghesi, degli Statisti Compìti
o perfino Teologi che ringhiano sociologie,
e ci affamano dentro altri inverni, boschi
di discariche. Lascia le orme: le seguiremo
fino al baratro imploso di ogni nuvola,
per bianchissima deriva onirica, trasmutati
in altri lupi o abeti che piangono i loro
cuori pazzi di resina, quest’incendio gelido
di lutto che invece insegna, infiamma calore…
E reclama, guaisce, sbrana per somma
fede, si addenta in bacio principesse,
guardiacaccia, santi; forse anche Dio.
5 luglio 2008, Plinio Perilli
Foto: "Anton Pavlovic Cechov e Piotr Nikolaevic Sorin" , nel laboratorio di drammaterapia "Nina di Cechov" da Il Gabbiano, Aprile 2008
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