@ da Dedalo
Sono rimasto colpito dal rileggere le prime righe del monologo iniziale della nostra pièce “Nina”. “Anno Domini 2008. Mi chiamo Nina. Sono una scrittrice e performer, e lavoro per alcune case editrici romane. Anno Domini 1896. Sono Nina, “Il Gabbiano” di Cechov, e in entrambe le esistenze non ho mai imparato a volare”.
La bellezza di queste poche righe ha fatto sì che il messaggio mi arrivasse ancora più forte: quel “non ho mai imparato a volare”…Continua la nostra Nina: “Non so perché Cechov mi abbia fatto questo: intitolare un’opera “Il Gabbiano”… un essere piumato, come me… con voce di piuma, piume… ma senza scatto del volo e con i piedi qui sulla terra. Non volo!Cerco una libertà che il Signor Cechov non mi dà”. E continua la bellissima Nina, parlando dello scrittore russo rivolta ai suoi compagni personaggi: “Questo essere umano che vuole dare a noi tutta questa infelicità, l’estremo sacrificio, fa parte di me come fa parte di voi: nell’esatta identica misura. Perché Cechov… è un uomo feroce, ferocissimo, un essere che non ha assolutamente un minimo di pietà verso i suoi personaggi…”.
Quello che mi colpisce è la compiutezza di questo disegno di sofferenza. No, non può essere casuale la sofferenza di cui parla Nina. C’è una precisa negazione delle potenzialità e delle possibilità dei personaggi di essere felici. C’è una volontà tesa ad annichilire, a stritolare nella disperazione. C’è, esiste. E’ terribile, potentissima. Sembra agire come se fosse un retaggio dell’umana natura, già collaudata, e pertanto in grado di dispiegarsi in modo efficiente, distruttivo al massimo. Questa potenza volta all’infelicità. Troppo potente, troppo perfetta. No, non può essere casuale. I personaggi di Cechov soffrono, si lamentano dell’impari lotta, del dissanguamento ai loro danni che li porterà a perire, e del fatto che venendo meno il loro sangue ciononostante il dolore non diminuisca, perché la condanna prevede che il dolore sia sempre massimo, che nessuno offuscamento possa portare una qualche attenuazione della loro disperazione. Come è possibile vivere in questa vita delimitata da muri di gomma invisibile, che lasciano intravedere o immaginare qualcosa della felicità che vi è oltre, ma che non possono essere superati, ma che aderiscono a chi tenta di farlo per poi rispingerlo nella sua vita come fossero elastici, sì che ci si muove a volte per inerzia, procedendo in avanti lungo la strada di lacrime e solitudine spinti dalle pareti contro cui si va a sbattere?
Come è possibile avere una vita così, così perfettamente non vita? No, non può essere casuale. Un essere capace del miracolo del volo, dello scatto del volo… Un essere capace della libertà… Le forze in campo sono enormi, enormi. Sono le nostre forze. Siamo noi. Sono le nostre forze, nella loro potenza, a darci il miracolo del volo, o la pena più perfetta. Rileggendo il monologo iniziale di Nina ho visto questo, ho visto questa immane energia, splendida e terribile. E sono stato contento, perché ho pensato che abbiamo a disposizione delle risorse sconfinate. Perché ho visto le potenzialità, questa volta positivissime, che tutti noi abbiamo, che possono accompagnare le nostre avventure se decidiamo di averne, di uscire in esplorazione, di vivere, di incontrare gli altri.
Foto: "Anton Cechov legge Il Gabbiano agli attori"
2 commenti:
@ da Azzuroo
Complimenti Dedalo: "questa vita delimitata da muri di gomma invisibile, che lasciano intravedere o immaginare qualcosa della felicità che vi è oltre, ma che non possono essere superati, ma che aderiscono a chi tenta di farlo per poi rispingerlo nella sua vita come fossero elastici...".
Un muro di gomma invisibile è una rappresentazione PERFETTA (la scrittura in maiuscolo nel linguaggio delle community equivale ad urlare) di questa condizione: chè c'è di più efficace, di un ostacolo che non si vede, invalicabile, che aderisce e quindi imprigiona, che assorbe tutte le nostre spinte e che ci respinge con pari forza... esattamente al punto di partenza! Mai sarei riuscito a descriverlo meglio!!
E nella bellezza di questa descrizione c'è anche una grande verità: è possibile che la vita presenti degli ostacoli così perfetti, così incredibilmente ritagliati su misura delle nostre azioni o non azioni? Così... casualmente? Eppure le nostre giornate storte sono spesso così straordinariamente storte, così diabolicamente storte... sembra quasi che si sia una regia (Direttore, il riferimento è puramente casuale)... Infatti c'è, siamo sempre NOI.
Purtroppo queste sono solo chiacchiere. Bisogna crederci, sempre... e ancora oltre.
@A DEDALO E AZZURRO DA INDACO
Le vostre splendide riflessioni mettono in moto nuove accensioni a cui non so resistere, malgrado le ragioni che mi hanno portata ad una meditata assenza "interventistica" sul blog.
Però, Dedalo, tu crei miele di lacrime sul mio volto, e anche dentro l'anima. Tu parli di un disegno compiuto della sofferenza, benché "Il Gabbiano" cechoviano non accolga soltanto questa prospettiva. Io l'ho ritagliata e cucita a misura, secondo un'interpretazione accorata, ricca di pathos, conforme alla realizzazione di un mio preciso modello sartoriale e di vita. Poi ho tentato di espandere ai personaggi -il nostro Elemento gruppale- una responsabilità: l'esperienza della condivisione. Come dire: "Guardate che questo dolore, custodito nella mia giara dove trova collocazione privilegiata l'Infinito -è anche il vostro dolore, custodito nella vostra. E non si fugge da esso. Si elude o si affronta: Infinito compreso".
Qui vivono, reali, alcune condizioni interrogative: come può l'Infinito essere contenuto, ermeticamente, in una giara di dolore?
Possiamo esportare dalla giara il dolore, restandone dentro col nostro Infinito?
Può il dolore risolversi tra finitudine e infinitudine?
Vogliamo, una volta per tutte, disabituarci da un unico monolitico sguardo?
Quella Bellezza devastata da Dolore, terribilità e invisibilità -che cela e rivela il visibile, sempre che lo si voglia disvelare- è sì condanna, annichilimento delle nostre potenziali risorse umane, istupidite da una terrestrità gravitazionale piuttosto ch'esser tese a un destino divergente, il quale, intimamente, ci avrebbe ricondotto all'Elemento Aria; nonché a quelle meravigliose ali, spuntate per "imparare" a volare.
Cechov aveva previsto questo non-volo: in fondo Kostia porge terrifico, ai piedi di Nina, un gabbiano (è lui? è Nina? è Vita?) ucciso senza apparente motivo. Un gesto sacrificale, un rito sabbatico, una profezia che nella ricerca simbolica racchiude, sin dall'inizio, ogni singolo processo esistenziale dei personaggi, anticipandone i destini paralleli -ed ineluttabili- in questo sortilegio gonfio e palestrato, anche, d'ovvietà. Allo stesso modo Cechov informa, sin dal principio, la chiusa tragica dell'opera.
Nina e tutti gli alter-ego di Cechov avrebbero potute averle le ali! Ma loro hanno preferito Dolore, Incomunicabilità, Disperazione, Orrore e Impotenza. Con impareggiabili schemi di gomma e muri respingenti si sono arresi, piuttosto vilmente, a un ventaglio russo trinato di occasioni. Occasioni perse ancor prima di ipotizzarne la perdita; prive d'alternative rinascenti. Questioni sterili, evidentemente, come l'abito di tutti i giorni: quel solito, monocorde vestito venuto a noia: monocorde noia che veste il solito trascorrere del tempo.
Non perdoniamo Cechov, io per prima, quindi lo processiamo.
Ma siamo NOI Cechov!
*
Nina
Posta un commento