@ da Plinio Perilli
Spero tu sia rimasto contento della serata: mi è sembrata molto intensa e partecipata. Ho temuto di non essere all'altezza come docente "drammaterapico", cioè di non essere sufficentemente freddo e imparziale, e magari di allungare troppo il brodo con digressioni da background e miniprolusioni letterarie del piffero...
A questo punto - ti farà ridere - il mio metro vero di giudizio diventa il caro (e peraltro assai acuto) Spartaco, lui che si vanta di essere, come era fiero anche Leonardo, "omo sanza lettere". Così mi chiedo: annoierò Poldo e con lui tutti, parlando del passaggio tra 8-900?, del dramma scandinavo e di quello cechoviano?, della scienza dell'Io e del Prof Freud nell'asse narrativo (e anche teatrale) che da Cechov arriverà a Svevo e ovviamente a Pirandello?... Pensa che strada meravigliosa e trasparente, che libera-mente ci viene da percorrere... Altro che raid Pechino-Parigi!!! Qui il rally drammaterapico è Oslo/Stoccolma/Bonn/Vienna/Trieste/Roma/Agrigento... Volendo, con una tappa aggiuntiva, grotowskiana a Pontedera...
Spero insomma che Cechov/Plinio mai risulti altezzoso o peggio estraneo ai travagli dei personaggi, che sono gli stessissimi, riflessi e forse prestati dall'autore. E che il Processo a Cechov valga davvero per tutti, a cominciare dal sottoscritto, affettuosamente tuo Plinio
...forse perché ieri mattina avevo appena rivisto il nostro Francesco Eugenio Negro –e in occasione della glorificazione terrena, starei per dire, del centenario papà Antonio, fondatore dell’Omeopatia in Italia, vero Tolstoj fluviale e introiettato che cura e contiene nei suoi biochimici romanzi terapici tutti i possibili, avvelenati romanzi esistenziali– ma in serata, durante lo splendido, a tratti struggente “processo” drammaterapico sul Gabbiano di Čechov, ho pensato spesso a quest’arte – e questa scienza – di curare il male col male stesso, seppur in dose ovviamente minima e calibratissima.
Curare Čechov con Čechov –ma il Čechov che è anche in noi, nel pur affettuoso bestiario domestico dei suoi personaggi che tanto ci riguardano, tanto ci contengono…
Sì che quando hai chiamato, hai “interrogato” a mo’ di esame confessionale due tra le più fragili e madornali anime in pena cechoviane, Kostia e Mascia, il loro immaginato, reinventato dialogo è alla fine risultato ancor più cechoviano di quello “canonico”… Da una parte, insomma, il Čechov cartaceo e prescritto, l’intangibile canone letterario, la dose unica; dall’altro, per feconda proiezione e contaminazione drammaterapica, il Čechov rivissuto e assimilato, mimetico e a piccole dosi…
- Kostia, sei felice?
- Che cos’è la felicità, la felicità con se stessi? È non sentire un fardello sulle spalle…
- Vorresti che qualcuno ti aiutasse a portarlo?
- No, semmai che qualcuno me lo togliesse!
- Ma se è tuo, come fanno gli altri a toglierlo?
- Io non ho tutte le risposte. Perché mi fai tutte queste domande?…
- Perché la mia felicità dipende da te…
- La mia no.
- Perché non provare?
- Non ho alcuna voglia di condividere…
C’è dunque questo Gabbiano parallelo, trasparente e ipotetico, che si intreccia all’altro, e in fondo se lo annette, lo divora e lo salva… Lo cura omeopaticamente inventandosi, estraendo dalla propria non meno inquieta trama d’esistenza piccole dosi biochiomiche di medicamenta atque remedia…
Per chi come me arriva a Čechov dall’arte, dai regesti letterari, lasciarlo per la vita, e ritrovarlo sui treni, alle stazioncine anonime e scrostate della mera esistenza, è come immergersi fra i personaggi dei suoi racconti; o addirittura mischiarsi fra i comunissimi pazienti che affollavano il suo dimesso ambulatorio di Mosca. “Dottor Čechov, mi fa male qui!…! “Dottor Čechov, sono quasi venti giorni che il mio stomaco”…
Ma noi siamo un altro tipo di personaggi/attori/pazienti; noi dovremmo chiedergli e rivelargli: “Dottor Čechov, da oltre un mese mi fa male il cuore…”. E ancora: “Carissimo Professor Čechov, posso sperare di curare la poesia con la poesia, l’amore con l’amore, la vita con la vita?…”. Quando l’unico antibiotico era forse quello dell’arte, o il sulfamidico della presa di coscienza, del denudamento propedeutico…
E con Čechov che adesso e a sua volta ci avrebbe chiesto, auscultandoci e palpandoci: “Le fa male qui?”.
Tutti dolenti i personaggi di Čechov, i nostri personaggi da adottare, rispecchiare e –per paradosso– salvare col vaccino drammaterapico delle nostre esperienze, del nostro male a piccole dosi… Mascia sta male, e Kostia, e l’Arkàdina, e ovviamente Nina: ma anche il maestro, perfino Trigòrin, squisitamente ammalato del più insidioso e perverso dei mali: l’indifferenza -leggi: il manierismo elegante e pavido degli artisti insinceri, meri ambasciatori e cultori della forma!-.
“Mi fa male qui”…
E perché il Čechov vero –o quello che magari dovrei “mimare”, rivivere io stesso– scuote ora la testa, incerto non sulla diagnosi ma forse addirittura sulla cura?…
Nina Zarèčnaja: Allora dovremo rivedere le parti, dovremo rivedere tutto, Kostia, cosa ne pensi?
Kostia: (visibilmente inquieto) Il mio messaggio non è stato compreso… non sempre la scena sul palco deve parlare della quotidianità… O può farlo, ma in modo nuovo ed orecchi attenti.
Eppure, caro Ermanno, proprio questo è adesso il loro -e anche il nostro- momento! Quello infinitamente giusto e necessario, propedeutico, drammaterapico, omeopatico… troviamo, tutti gli aggettivi del caso… Ma è importante al contempo sia curare Čechov che curarsi con Čechov!
Mi è sembrato l’insegnamento –-la comprova– più importante di ieri sera. Coi personaggi che diventavano autori di se stessi e figliavano dialoghi, monologhi, domande, risposte più cechoviane di Čechov!…
Tutti pazienti di Čechov, evviva! Tutti innamorati, gabbiani utopisti, e umiliati, abbattuti nel loro volo del cuore! Queste braccia/ali impallinate, impagliate!
Ma anche quanto cielo!, o meglio: quanti cieli!
Quanto tormento! –- ma anche, di riflesso, quanto amore:
Mascia – Io soffro. Nessuno, nessuno conosce le mie sofferenze! (Gli appoggia la testa sul petto, sottovoce) Io amo Konstantín.
Dorn – Come sono tutti nervosi! Come sono tutti nervosi! E quanto amore… Oh, lago stregone! (teneramente) Ma che cosa posso fare, bambina mia? Che cosa? Che cosa?
Ogni grande scrittore riesce a metterci davanti con ogni suo personaggio come uno specchio, un’angolatura specchiante della nostra anima: e ieri sera io stesso, che dovrei essere o meglio fare il Čechov, mi sono sentito dentro anche la sordità ottusa di Kostia, la vanità egocentrica di Trigòrin, la pacatezza esperta del Dott. Dorn… Ed ho capito che Čechov ha amato dentro e oltre Nina tutte le Nine del mondo, fragili d’entusiasmo, e le Mascie irrisolte e tristi, perfino le Arkàdine pessime madri quanto bravi attrici… Attrici, appunto, attrici d’esistenza: dunque sinonimo di finte, di finzione.
Sono queste finzioni così intollerabili che divengono vere, alle prese coi macigni della felicità e dell’infelicità, entrambi difficili da portare!!!
E se l’infelicità si cura con l’infelicità, qui nella nostra pièce Mascia cura Nina senza saperlo, forse Nina l’Arkàdina, e poi se stessa: fino a partorire una se stessa -giusta l’intuizione della Maroccolo- che l’ha in fondo preceduta un secolo dopo, perché lotta con lei e per lei anche in silenzio… Come Kostia/Roberto lotta per fortificarsi a distanza di un millennio; e Mascia/Katia/nonché Emanuela vestono sempre di nero la nudità solitaria, assetata, della propria anima…
“E quella luna, quella lanterna di luna non riuscirà più attraverso il suo fascio bianco a disegnare nessuna ombra o a illuminare noi”…
Un’ombra bianca, un’ombra chiara invece ci contiene tutti e tutti ci ripartorisce: immensa Alma Mater, placenta di seta e strass: capace di contenere Nina 1 e Nina 2, Nina Maroccolo e Daniela Marinetti, la madre e la figlia che è diventata, ogni sogno di cuore, le ali di tutti i voli, perfino tutti i colori, l’Arco-baleno di tutte le creature del laboratorio, eterni colori e ragazzi: Indaco, Azzurro, Blue, ogni profondità e velatura di cielo…
Perché il bianco non annulla ma contiene i colori, certo meglio li trasforma verso e dentro la luce.
Foto: foto laboratorio su Cechov, dalla scena "processo a Cechov", aprile 2008
Spero tu sia rimasto contento della serata: mi è sembrata molto intensa e partecipata. Ho temuto di non essere all'altezza come docente "drammaterapico", cioè di non essere sufficentemente freddo e imparziale, e magari di allungare troppo il brodo con digressioni da background e miniprolusioni letterarie del piffero...
A questo punto - ti farà ridere - il mio metro vero di giudizio diventa il caro (e peraltro assai acuto) Spartaco, lui che si vanta di essere, come era fiero anche Leonardo, "omo sanza lettere". Così mi chiedo: annoierò Poldo e con lui tutti, parlando del passaggio tra 8-900?, del dramma scandinavo e di quello cechoviano?, della scienza dell'Io e del Prof Freud nell'asse narrativo (e anche teatrale) che da Cechov arriverà a Svevo e ovviamente a Pirandello?... Pensa che strada meravigliosa e trasparente, che libera-mente ci viene da percorrere... Altro che raid Pechino-Parigi!!! Qui il rally drammaterapico è Oslo/Stoccolma/Bonn/Vienna/Trieste/Roma/Agrigento... Volendo, con una tappa aggiuntiva, grotowskiana a Pontedera...
Spero insomma che Cechov/Plinio mai risulti altezzoso o peggio estraneo ai travagli dei personaggi, che sono gli stessissimi, riflessi e forse prestati dall'autore. E che il Processo a Cechov valga davvero per tutti, a cominciare dal sottoscritto, affettuosamente tuo Plinio
...forse perché ieri mattina avevo appena rivisto il nostro Francesco Eugenio Negro –e in occasione della glorificazione terrena, starei per dire, del centenario papà Antonio, fondatore dell’Omeopatia in Italia, vero Tolstoj fluviale e introiettato che cura e contiene nei suoi biochimici romanzi terapici tutti i possibili, avvelenati romanzi esistenziali– ma in serata, durante lo splendido, a tratti struggente “processo” drammaterapico sul Gabbiano di Čechov, ho pensato spesso a quest’arte – e questa scienza – di curare il male col male stesso, seppur in dose ovviamente minima e calibratissima.
Curare Čechov con Čechov –ma il Čechov che è anche in noi, nel pur affettuoso bestiario domestico dei suoi personaggi che tanto ci riguardano, tanto ci contengono…
Sì che quando hai chiamato, hai “interrogato” a mo’ di esame confessionale due tra le più fragili e madornali anime in pena cechoviane, Kostia e Mascia, il loro immaginato, reinventato dialogo è alla fine risultato ancor più cechoviano di quello “canonico”… Da una parte, insomma, il Čechov cartaceo e prescritto, l’intangibile canone letterario, la dose unica; dall’altro, per feconda proiezione e contaminazione drammaterapica, il Čechov rivissuto e assimilato, mimetico e a piccole dosi…
- Kostia, sei felice?
- Che cos’è la felicità, la felicità con se stessi? È non sentire un fardello sulle spalle…
- Vorresti che qualcuno ti aiutasse a portarlo?
- No, semmai che qualcuno me lo togliesse!
- Ma se è tuo, come fanno gli altri a toglierlo?
- Io non ho tutte le risposte. Perché mi fai tutte queste domande?…
- Perché la mia felicità dipende da te…
- La mia no.
- Perché non provare?
- Non ho alcuna voglia di condividere…
C’è dunque questo Gabbiano parallelo, trasparente e ipotetico, che si intreccia all’altro, e in fondo se lo annette, lo divora e lo salva… Lo cura omeopaticamente inventandosi, estraendo dalla propria non meno inquieta trama d’esistenza piccole dosi biochiomiche di medicamenta atque remedia…
Per chi come me arriva a Čechov dall’arte, dai regesti letterari, lasciarlo per la vita, e ritrovarlo sui treni, alle stazioncine anonime e scrostate della mera esistenza, è come immergersi fra i personaggi dei suoi racconti; o addirittura mischiarsi fra i comunissimi pazienti che affollavano il suo dimesso ambulatorio di Mosca. “Dottor Čechov, mi fa male qui!…! “Dottor Čechov, sono quasi venti giorni che il mio stomaco”…
Ma noi siamo un altro tipo di personaggi/attori/pazienti; noi dovremmo chiedergli e rivelargli: “Dottor Čechov, da oltre un mese mi fa male il cuore…”. E ancora: “Carissimo Professor Čechov, posso sperare di curare la poesia con la poesia, l’amore con l’amore, la vita con la vita?…”. Quando l’unico antibiotico era forse quello dell’arte, o il sulfamidico della presa di coscienza, del denudamento propedeutico…
E con Čechov che adesso e a sua volta ci avrebbe chiesto, auscultandoci e palpandoci: “Le fa male qui?”.
Tutti dolenti i personaggi di Čechov, i nostri personaggi da adottare, rispecchiare e –per paradosso– salvare col vaccino drammaterapico delle nostre esperienze, del nostro male a piccole dosi… Mascia sta male, e Kostia, e l’Arkàdina, e ovviamente Nina: ma anche il maestro, perfino Trigòrin, squisitamente ammalato del più insidioso e perverso dei mali: l’indifferenza -leggi: il manierismo elegante e pavido degli artisti insinceri, meri ambasciatori e cultori della forma!-.
“Mi fa male qui”…
E perché il Čechov vero –o quello che magari dovrei “mimare”, rivivere io stesso– scuote ora la testa, incerto non sulla diagnosi ma forse addirittura sulla cura?…
Nina Zarèčnaja: Allora dovremo rivedere le parti, dovremo rivedere tutto, Kostia, cosa ne pensi?
Kostia: (visibilmente inquieto) Il mio messaggio non è stato compreso… non sempre la scena sul palco deve parlare della quotidianità… O può farlo, ma in modo nuovo ed orecchi attenti.
Eppure, caro Ermanno, proprio questo è adesso il loro -e anche il nostro- momento! Quello infinitamente giusto e necessario, propedeutico, drammaterapico, omeopatico… troviamo, tutti gli aggettivi del caso… Ma è importante al contempo sia curare Čechov che curarsi con Čechov!
Mi è sembrato l’insegnamento –-la comprova– più importante di ieri sera. Coi personaggi che diventavano autori di se stessi e figliavano dialoghi, monologhi, domande, risposte più cechoviane di Čechov!…
Tutti pazienti di Čechov, evviva! Tutti innamorati, gabbiani utopisti, e umiliati, abbattuti nel loro volo del cuore! Queste braccia/ali impallinate, impagliate!
Ma anche quanto cielo!, o meglio: quanti cieli!
Quanto tormento! –- ma anche, di riflesso, quanto amore:
Mascia – Io soffro. Nessuno, nessuno conosce le mie sofferenze! (Gli appoggia la testa sul petto, sottovoce) Io amo Konstantín.
Dorn – Come sono tutti nervosi! Come sono tutti nervosi! E quanto amore… Oh, lago stregone! (teneramente) Ma che cosa posso fare, bambina mia? Che cosa? Che cosa?
Ogni grande scrittore riesce a metterci davanti con ogni suo personaggio come uno specchio, un’angolatura specchiante della nostra anima: e ieri sera io stesso, che dovrei essere o meglio fare il Čechov, mi sono sentito dentro anche la sordità ottusa di Kostia, la vanità egocentrica di Trigòrin, la pacatezza esperta del Dott. Dorn… Ed ho capito che Čechov ha amato dentro e oltre Nina tutte le Nine del mondo, fragili d’entusiasmo, e le Mascie irrisolte e tristi, perfino le Arkàdine pessime madri quanto bravi attrici… Attrici, appunto, attrici d’esistenza: dunque sinonimo di finte, di finzione.
Sono queste finzioni così intollerabili che divengono vere, alle prese coi macigni della felicità e dell’infelicità, entrambi difficili da portare!!!
E se l’infelicità si cura con l’infelicità, qui nella nostra pièce Mascia cura Nina senza saperlo, forse Nina l’Arkàdina, e poi se stessa: fino a partorire una se stessa -giusta l’intuizione della Maroccolo- che l’ha in fondo preceduta un secolo dopo, perché lotta con lei e per lei anche in silenzio… Come Kostia/Roberto lotta per fortificarsi a distanza di un millennio; e Mascia/Katia/nonché Emanuela vestono sempre di nero la nudità solitaria, assetata, della propria anima…
“E quella luna, quella lanterna di luna non riuscirà più attraverso il suo fascio bianco a disegnare nessuna ombra o a illuminare noi”…
Un’ombra bianca, un’ombra chiara invece ci contiene tutti e tutti ci ripartorisce: immensa Alma Mater, placenta di seta e strass: capace di contenere Nina 1 e Nina 2, Nina Maroccolo e Daniela Marinetti, la madre e la figlia che è diventata, ogni sogno di cuore, le ali di tutti i voli, perfino tutti i colori, l’Arco-baleno di tutte le creature del laboratorio, eterni colori e ragazzi: Indaco, Azzurro, Blue, ogni profondità e velatura di cielo…
Perché il bianco non annulla ma contiene i colori, certo meglio li trasforma verso e dentro la luce.
Foto: foto laboratorio su Cechov, dalla scena "processo a Cechov", aprile 2008
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