mi compiaccio che tu abbia messo a disposizione di tutti la tua personale esperienza; essa sicuramente stimola e a confronti interni e privati per il resto della banda! Certamente silenziosi, sicuramente privati, a volte ostentatamente disimpegnati. Il fatto più importante è però questo tuo aver riscontrato come quanto accade nel processo drammaterapico si sposti, in barba a tempo e spazio, a coinvolgere riflessioni ed accadimenti della vita di tutti i giorni. Parliamone un pò...
Quando questo occorre, ad esempio nel contesto di una terapia analitica, lo si indica con il termine di “contesto adattivo”; una sorta di estensione di quanto avviene nel setting psicoanalitico oltre le sue quinte, nella vita del soggetto, tra un incontro e l’altro. Può riguardare un sogno appena raccontato, interpretato o meno dall’analista, che ricorre una volta ancora – o meglio…una notte ancora- e fa visita alla persona con altri contributi. Ho fatto questo esempio, riferendomi ad un setting terapeutico, perché anche il nostro processo drammaterapico, pur non svolgendosi con intenzioni “terapeutiche” propriamente dette, ma mirando alle risorse dell’individuo, è sensibile ad allargare i suoi spazi di laboratorio al vero ed importante laboratorio della nostra esperienza che è l’ ordinary life: “E’ chiaro che è fondamentale vivere la vita, uscire di casa, guardarsi intorno, incontrare altre persone, perché poi una maestra mirabile e insostituibile di vita è proprio la vita stessa". Anche qui, dove stiamo scrivendo, e come ho già indicato, lo spazio virtuale si presta ad accogliere e processare quanto facciamo.
Tu descrivi in modo estremamente chiaro il “lasciarsi andare, senza forzare…" il processo in atto: “Si è trattato quasi sempre di idee che hanno stimolato l’apertura a nuove possibilità e l’ampliamento dei modi di agire e reagire rispetto alle situazioni della vita, situazioni che magari ci fanno sentire “costretti” in comportamenti che sentiamo pesanti eppure inevitabili. Il messaggio che ho colto dalle nostre attività è stato per me primariamente un invito alla libertà di essere quello che vorremmo essere, o meglio, che abbiamo e siamo dentro”. Quindi trasmetti l’idea che a tentare di farlo, si è premiati, ti sei trovato premiato. Accade, perché è quello che desideriamo.
Tu descrivi in modo estremamente chiaro il “lasciarsi andare, senza forzare…" il processo in atto: “Si è trattato quasi sempre di idee che hanno stimolato l’apertura a nuove possibilità e l’ampliamento dei modi di agire e reagire rispetto alle situazioni della vita, situazioni che magari ci fanno sentire “costretti” in comportamenti che sentiamo pesanti eppure inevitabili. Il messaggio che ho colto dalle nostre attività è stato per me primariamente un invito alla libertà di essere quello che vorremmo essere, o meglio, che abbiamo e siamo dentro”. Quindi trasmetti l’idea che a tentare di farlo, si è premiati, ti sei trovato premiato. Accade, perché è quello che desideriamo.
Pensa a quanto ho appena detto; un’espressione estremamente semplice, ovvia, ma che in fondo nasconde un aspetto tanto interessante, quanto semplice! In uno dei precedenti post accennai al processo intenzionale, che precede ogni azione volontaria; ma in effetti non tutte le nostre azioni ed accadimenti psichici hanno una esplicita intenzionalità. Ed è anche con quella che dobbiamo avere a che fare, se vogliamo comprendere che spesso…pure il solo “desiderare”, “aspettarsi che…”, dischiude porte silenziose a comportamenti ed eventi “imprevedibili”, ma ricercati. Non sempre, infatti, si è in grado di “lasciarsi andare”; ma se poi noi intendiamo questo come “l’aspirazione a che accada qualcosa”, una sorta di solo apparentemente passiva attesa…beh qualcosa dentro comincia a lavorare! Questo al posto del “pigro” ed iterato meccanismo di “rassegnazione” con il quale ci accorgiamo di assistere alle nostre difficolta’, lì ratificandole e facendone un elemento di futuro pregiudizio. Questa “aspettativa” positiva, invece, che non è “azione”, né attiva ricerca delle risposte, persino consapevole della nostra difficoltà, lavora infatti internamente, dislocando energie inusitate, disimpegna dai "sensi di colpa" celati, dove magari l’impegno attivo si sarebbe scontrato con i muri delle nostre pregiudiziali: "Uno sguardo interiore che è sia causa che effetto di sé stesso, che rende sia artefici che vittime”. Milton Erickson, in alcuni casi - ove vi sia una positiva trasformazione dello stato di coscienza- indica come gancio conscio-inconscio, un consapevole ed umile pescaggio nello scatolone in soffitta o in cantina, attivato dalla sincera voglia di “migliorare”, “trovare”, “lasciarsi andare”. Il lavoro del nostro inconscio non segue le regole razionali dell’Io, che è troppo impegnato nell’esame della realtà, ma è discontinuo, procede per salti, è inaspettato…ma poi ti soprende…
Foto: foto di scena, Dedalo e Cheeky "preparazione del fissatigre", primo atto da "il fissatigre", piece drammaterapica, maggio 2008
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