Quando avevo quindici anni e frequentavo il liceo, una volenterosa insegnante di lettere decise di portare il branco di ragazzine inquiete, confuse e acneiche, cui appartenevo, a vedere "Il piacere dell'onestà" di Luigi Pirandello, al Teatro Valle. Ricordo moltissime cose di quella esperienza, che era il mio primo incontro con il Teatro vero, qualcosa di diverso dalle recite in parrocchia o dagli spettacoli in vernacolo che vedevo nella piazza del paese dove trascorrevo le vacanze.Per esempio,ricordo che la mia compagna di banco si era messa una maglietta con gli strass per fare colpo su eventuali bellissimi ragazzi seduti in platea; oppure ricordo il mio smarrimento di fronte all'incapacità di seguire i dialoghi dei protagonisti, con troppe cose non dette, non spiegate, sottintese, da intuire. Riuscii comunque a capire che si parlava di una complessa vicenda di onore perduto, matrimoni riparatori, ipocrisie e complesse verità taciute, e poi, alla fine, niente era quel che si credeva.
Ricordo l'attimo in cui apparve in scena Alberto Lionello: su uno sfondo nudo, lui era solo, illuminato dall'alto, si voltava lentamente verso il pubblico e a me sembrò che guardasse ME!!
Tutte noi ragazze poi ci raccontammo di quello sguardo che conteneva il passato e il presente del personaggio e ognuna aveva avuto la stessa sensazione, di essere guardata e sfidata.
Ok, questo è un ricordo personale, magari falsato dalla nostalgia per un attimo vero e felice.
Uno sguardo e un movimento come quello, capace di entrare nella testolina di una acerba ragazzina e di rimanervi nei decenni a venire, per esistere non aveva bisogno né degli stucchi e dei velluti del teatro, né del palcoscenico sopraelevato, né della ricchezza delle scene (che di fatto, in quell'allestimento, non c'era) o dei costumi più fantasiosi.Attore e pubblico erano avvinti, legati da uno sguardo.Il Director mi ha chiesto di parlarvi di Grotowski e Artaud. Scusate, non riesco a descrivere il teatro Grotowskiano se non così. Vi voglio troppo bene per infliggervi la mia prosa più didascalica e didattica, srebbe troppo facile. Come Grotowskii ha spogliato a suo tempo il teatro di tutto ciò che riteneva sovrastrutture, inutili e dannose per la comprensione del reale fascino e potere della recitazione, così io non faccio uso qui di nozioni e citazioni. Vi offro il mio ricordo personale, le emozioni di allora, pure come lo sono nella memoria, con la serietà di chi entra in chiesa. Grotowski volle restituire all'attore la sacralità del suo mestiere e noi, "quelli della drammaterapia", come potremmo non fare nostro questo atteggiamento?
Non si può affrontare il nostro pubblico senza essere consapevoli di ciò che vorremmo (e a volte riusciamo) a fare e cioè coinvolgere e trasformare noi stessi e gli spettatori, recitando, agendo un testo, nello stesso modo con cui il sacerdote celebra il rito, partecipandovi con il cuore e l'anima, di fronte a un 'assemblea scelta, raccolta in uno spazio definito e sacralizzato.Grazie, Grotowski, per avere smantellato nei non addetti ai lavori l'immagine degli attori come divi vanitosi, scapestrati, rubagalline e morti di fame, dediti agli eccessi, superstiziosi, grazie per avere abbattuto la differenza tra attori professionisti e dilettanti, o tra attori e pubblico!
Gesto, sguardo, parola, movimento, coscienza, consapevolezza.. poche cose nella "valigia dell'attore". Da usare, come voleva Artaud, in maniera integrale e integrata. La parola mai disgiunta dal gesto, dal movimento, animata dalla esperienza emotiva dell'attore, giungono al cuore dello spettatore che ne riconosce con gli occhi, con il cuore e con la pancia, la coerenza e l'efficacia. Difficile, per chi non conosce Artaud, pensare che per fare questo ci voglia CRUDELTA'!
3 commenti:
@ Pino Gencarelli
Nella sua opera “Drammaterapia” R.J.Landy introducendo il lavoro di Stanislavskij descrive il metodo di questo autore come “sistema psicologico e naturalistico basato su un approccio emozionale alla recitazione”.
Subito dopo Landy esplicita, a proposito del lavoro di formazione degli attori secondo Stanislavskij , la tecnica della memoria emotiva.
E’ a mio avviso una sua visione forse parziale del concetto che ho trovato espresso in modo più intellegibile e pregnante nel sito http://www.operamondo.it/memoria%20emotiva%20e%20azioni.htm epigrafato elogio di Stanislavskij. Qui la tecnica della memoria emotiva si tocca quasi con mano: è differente. Nel testo sul sito indicato si parla del concetto di immedesimazione e non di improvvisazione come fa invece Landy. Si parte dall’assunto che il personaggio non è una persona ma una struttura linguistica. “ Stanislavskij dice: anche i grandi personaggi letterari sulla carta non hanno memoria, sono strutture di parole, che non hanno un passato di persona, con le esperienze, le emozioni reali che, trasformandosi in ricordi, fanno una persona. Come fare a trasformare questa struttura linguistica in una persona, in un personaggio (l’ideale è che persona e personaggio coincidano), con tutte le sfaccettature, con tutte le profondità? Prima cosa, costruirgli un passato. Se una persona è ciò che ricorda, anche un personaggio è ciò che ricorda, ma il personaggio, essendo una struttura linguistica, non ricorda. Allora, io attore devo costruirgli un passato. E come faccio? Cerco nel mio passato. Ma io posso avere un passato simile a quello di Amleto? Certo che no. Le esperienze mie non sono quelle che io posso immaginare per Amleto, però sicuramente nel mio passato posso trovare delle esperienze che per analogia posso attribuire al passato di Amleto. Chi non ha avuto esperienza di conflitto coi genitori? Allora si tratta di lavorare sul proprio passato per costruire la memoria emotiva del personaggio. Il risultato utopico finale dovrebbe essere che questi due percorsi, queste due entità distaccate (la struttura linguistica e l’io dell’attore) piano piano si sovrappongono. Ma perché? Perché hanno un passato in comune. Due entità e un solo passato non possono che diventare una entità sola. Ma il percorso non è a un senso solo. Io posso preparare la mia interiorità in modo che mi permetta di raggiungere l’immedesimazione nel personaggio con la conseguenza che mi comporterò ‘come se’ fossi lui. Ma posso fare anche il viaggio al contrario: comportarmi come lui in modo che la mia interiorità ne sia influenzata e si crei un cerchio virtuoso tra il fuori e il dentro.”
Personalmente e nelle piccole esperienze CDIOT ho sperimentato a volte il “come se” chiudendo gli occhi durante il warm up e forse ritenendolo di impulso un approccio immediatamente fruibile. Altre volte ho cercato di esteriorizzare il comportamento del personaggio permettendo che questo tocchi il mio profondo: facendo questo ho ottenuto forse più risultati in termini di riflessione personale, collocazione nel contesto sociale e transfert.
@ Spartaco Pelle
Il racconto che non cerca proseliti
Ancora una volta il mio ego, attraverso la mia mente, mi ha fottuto.
Quando mi sono accorto che avevo uno spazio per entrare e vincere la diatriba con Gianni (“avere ragione”), tutte le risorse che albergano nel nostro “dentro” sono sparite.
Ed è uscito un discorso di parte, per “avere ragione”.
Ecco là il Director ad intervenire per farmi rendere conto di dove stavo andando. Grazie.
Voglio soltanto dire che dietro a qualsiasi cosa, piccola o grande che sia, c'è un essere umano e io là voglio andare.
Forse ho la presunzione di instaurare soltanto dei rapporti veri, più profondi, senza arrivare alla negazione di me stesso.
Trovo molto difficile avere dei rapporti di convenienza : non ci credo! (Provo disagio dentro di me).
Sicuramente è un mio limite. Fiero di questo, continuo a credere nell'umano.
E' l'unico modo che ho per vivere, perché è da questo che vengono le mie risorse ed è attraverso questo che posso cambiare la mia vita e riprendermela.
Bellissimo il post di M.Pina, denso di spunti di riflessione il commento di Pino. Vi abbraccio a presto Rosanna
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