Dramatherapy, Figuring out the Dreams |
Tragico ritrovamento quello di Yara, una scoperta che non porterà alcun beneficio a questa ragazzina in attesa della realizzazione diei suoi sogni. Una scoperta ancora una volta cruda per le nostre coscienze, che invece potrebbe lavorare e portare a qualche progresso, a patto di …farla lavorare dentro. E in questo, in fondo, consiste la vera “evoluzione” della specie. Yara amava il movimento che supera i limiti della gravità, quello che unisce i gesti e l’educazione che vi è dietro alle espressione del sogno e dell’arte, che vuole elevare lo spirito, oltre che il corpo. Il volo più ardito per lei è stato terribile, ingiusto, inaspettato.
Tra novembre e dicembre, nel pieno della lavorazione del nostro Barbablù (Blue Beard, To Want, To Need, To Be), insieme a questo nostro gruppo ebbi molte perplessità riguardo la realizzazione della pièce teatrale. Il teatro della vita, con l’angosciante recente vicenda di Sara Scazzi e poi la scomparsa di Yara, superava tragicamente quello che si svolgeva nelle nostre prove. Ne parlammo più volte. La vicenda “artistica” ricalcava troppo quanto di reale e drammatico stava avvenendo nella cronaca di quei giorni: il sospetto del mostro intorno-dentro a noi. Poi, si decise che, in un teatro “totale”, come definisco quello che dirigo, era necessario che anche la storia di queste due ragazze lavorasse dentro il gruppo. Silenziosamente, senza bollettini di notizie o voyeuristici richiami alle storie vere, ma con l’aiuto del processo drammaterapico in atto. Per chi, come me, si è sempre interessato di criminologia per lavoro e per studio, non si trattava di entrare nella scena del crimine, ma di viverne i significati insieme al mio gruppo di attori, di persone intime. E Barbablù è stato rappresentato.
Una persona, qualche giorno fa mi parlava di un differente sogno infranto. Le sue scarpette di danza, ferme da sempre nella mente-cassetto della memoria ad aspettare di essere indossate, a leggere con lei la silenziosa delusione di non essere compresi, almeno in quella cosa. Non sfugge a me, come a voi, la ovvia differenza di gravità degli eventi, ma non di importanza. La vita di questa persona, da allora in poi si spogliò non solo di scarpette mai indossate, ma del coraggio, dell’autonomia, ed in molta parte della credibilità in se stessa. L’importanza delle cose non risiede solo in quanto è visibile, dichiarato, raccontato a noi sulle pagine di un giornale o reso “vero” dalle testimonianze. Il “tribunale” dei nostri affetti, quello che dispensa sensi di colpa e perdoni, punizioni e premi, parcheggia in una mente molto più vasta di quanto può essere contenuto nella scatola cranica di un individuo. La coscienza collettiva toglie e regala importanza alle cose, come alle mode, spesso sull’onda del fragore della notizia o dello share di ascolto, oppure, come in questi giorni, deve riuscire a “comprendere” quanto accade, anche in assenza di rumori o rumors, in una terra vicinissima al nostro Paese, la Libia. Una delle prime lezioni che insegna la criminologia di ogni latitudine è che dietro un vittima, come forse per la piccola Yara, vi è sempre la nozione di trovarsi “nel posto sbagliato nel momento sbagliato” (e di converso terribilmente giusti per l’omicida). Coordinate di tempo e luogo, però, non si riferiscono solo ad orari e posti, ma alla più vasta dimensione del collettivo che è cosciente, solidale, empatico al suo interno, che sorveglia senza sorvegliare, che protegge senza far guerre, che sostiene senza esplicita richiesta. Questo è il significato dell’empatia, della testimonianza della vita sociale quando accoglie e supera in confini limitati delle proprie paure.