Wallace Delois Wattles (1860 – 1911) scrive: “Le speciali facoltà usate nel nostro lavoro sono gli strumenti a nostra disposizione, ma il successo non dipende solo dall'avere o meno buoni strumenti; dipende più che altro dal potere di usare tali strumenti. Assicuriamoci che i nostri strumenti non siano solo i migliori, ma siano anche tenuti nelle migliori condizioni; possiamo coltivare ogni facoltà per ottenere tutto ciò che desideriamo”. Spesso il motore che si cela dietro la apparente ovvietà di certe asserzioni, ci è vietato. Eppure siamo costantemente tentati di "archiviare" come ovvi molti contenuti. Però avviene che nell'ampio e polveroso archivio del "conosciuto, saputo", le piccole eppure importanti verità che riguardano il nostro funzionamento più profondo vengono spogliate dell'"attualità", presupposto fondamentale perchè poi possiamo utilizzare qualche cosa...se volete è quell'incosciente inerzia, propria dell'animale che si situa indietro nella scala evolutiva -eppure utile a lui nel processo di adattamento-, che ci porta a "giocare" solo con le cose che abbiamo davanti; e quindi un nuovo accesso a quell'archivio ci è negato.
Riepilogo il passaggio: 1) è ovvio che non bastino gli strumenti o le abilità (tools and skills) ad assicurare il successo in qualcosa, ma servano le condizioni ideali perchè io possa usarle; 2) da wuel momento in poi quell'asserzione viene archiviata in "reparti" polverosi della mente, isolati da quanto in memoria recente invece servirebbe all'utilizzo del dato, al tentativo di processarlo diversamente. Del resto ciò che è ovvio non necessità di ulteriori approfondimenti, è un dato esperenziale stratificato che si sottrae più facilmente all'esperienza. I nostri giudizi frettolosi, i luoghi comuni, l'immortalato tribunale della verità, della bellezza, del giusto, potente, grande, ricco, ci separa dal contatto intimo (= solo nostro)con le cose ed il loro senso per noi, preferendo la catalogazione massificante del giudizio mercantile. Sappiamo che le parole si vendono e si comprano. E tutto si consuma troppo velocemente per essere compreso, ri-considerato. Quale potrebbe essere invece un differente approccio? Quello di farsi domande, evitando di tenere in primo piano solo le risposte più immediate.
"Ho delle abilità che conosco e che non conosco?
Le sto utilizzando appieno?
Vi sono condizioni che posso riconoscere come intralcio alla loro espressione?
Potrei rimuovere questi ostacoli?
Lo desidero?
Comincio! "
Tutto questo, se è qui che ne stiamo discutendo, può ragionevolmente essere applicato anche al lavoro attoriale, un percorso di continua, intensa ed anche sfumata, sperimentazione che è aiutato dall'allenamento. I momenti di intensa partecipazione al lavoro della compagnia, agli esercizi propedeutici il setting drammaterapico, hanno infatti la silenziosa complicità di quel luogo invisibile dove continuamente il nostro inconscio lavora esperienze, idee ed affetti; tutto quello che si è appreso, dove abbiamo fallito o raggiunto un risultato, comunque. Qui inizia il percorso della scoperta, che è enormemente aiutato dalla motivazione-disciplina insieme. Senza alcun esercizio dell'intenzionalità, della volizione, della ripetizione, il successo si situa solo nell'area della fortuna, del miracolo, della casualità!
Ho abilità che conosco o non conosco?
Ecco...ora voglio scoprirlo!
Ancora, a proposito di Delois Wattles Wallace, come ricorda sua figlia Florence: “Mio padre scriveva quasi costantemente. E quando non scriveva, attraverso una tecnica di visualizzazione creativa si formava un’immagine di sé come scrittore di successo, immagine che lui riteneva essenziale al raggiungimento effettivo del suo scopo. La cosa bella di mio padre è che viveva realmente ogni pagina che scriveva. La sua fu davvero una vita di potere”.
Siamo tutti ansiosi di re-iniziare!
Director
Foto: Delois Wattles Wallace
1 commento:
"I nostri giudizi frettolosi, i luoghi comuni, l'immortalato tribunale della verità, della bellezza, del giusto, potente, grande, ricco, ci separa dal contatto intimo (= solo nostro)con le cose ed il loro senso per noi". Leggendo ora questa frase, mi è venuta in mente l'immagine di un bambino, molto piccolo, che guarda quello che si presenta alla sua vista e cerca di capirlo, scoprirlo, affrontarlo, magari farselo amico oppure piegarlo alla sua volontà. E allora piega il capo di lato, lo guarda da un'altra angolazione, poi magari si avvicina, lo tocca e gli dà un bel morso. E se la mamma o il papà lo allontanano dal suo oggetto di studio, lui non si lascia distrarre dal suo intento; no, lui non ha ancora capito, non è soddisfatto, e se c'è una mano forte a tirarlo via, questo non significa per lui che si deve arrestare nella sua ricerca. Già pensa, appena la stretta si allenta, di riavvicinarsi a quel mobile, a quella credenza, a quel particolare angolo, e riassestare un altro bel morso, perchè lui ancora non ha capito. E se la mano forte non lo lascia, il suo sguardo rimane lo stesso fisso all'oggetto di studio, il capo e il volto girati verso l'indietro, mentre le sue gambe si adeguano a quell'allontanamento, consapevoli che per il momento non c'è niente da fare, quella mano è forte. Ma lui non s'arrende mica. Intorno i parenti ridono e scherzano, qualcuno lo chiama "mordicchio", ma lui dal suo seggiolone guarda serio verso il mobile. E prepara i dentini.
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