La “direzione” in drammaterapia si distingue da quella teatrale fondamentalmente per un motivo: la compiuta realizzazione del testo e di quello il regista intende portare in scena cede il passo alla significativa espressione e quindi conduzione di quanto lavora nell’attore e nel gruppo all’interno della specifica drammaturgia. L’attenzione alla tecnica teatrale, pure necessaria, deve piegarsi alla esplorazione di tutti quei segni che nell’interpretazione indicano come il processo dramma-terapico stia lavorando, sia che si tratti di un setting drammaterapico in senso stretto (clinico) che di un teatro drammaterapico (Creative Drama & In-Out Theatre). Le abilità richieste al regista ed all’attore sono infatti in parte diverse. Tuttavia, tutto quanto si realizza in questo lavoro particolare con il teatro avviene, almeno in parte, anche in qualsiasi attento laboratorio teatrale; ma quanto nel teatro lavora al servizio del testo e della regia (attore, regista ed apparato teatrale), qui è invece al servizio dell’attore. Questa intenzione, ad una comprensione superficiale, potrebbe apparire estremamente narcisistica, informata ad un attore-centrismo e , come del resto nel teatro, può anche incorrere in questo dannoso “effetto collaterale”. Basti pensare a quanto accade anche nel contesto teatrale, dove l’istrinionismo dell’interprete può arrivare a tradire il testo, la conduzione registica e la stessa compagnia. Come afferma Grotowsky, l’attore cortigiano è sempre in agguato, a scapito dell’attore sacerdote. Ma non è questo il punto che sto illustrando, in quanto i pericoli del personalismo sono presenti in qualsiasi lavoro performativo. Piuttosto, c’è da considerare che se il punto di partenza della drammaterapia è un teatro che aiuti l’autentica espressione dell’individuo (piuttosto che al servizio dello spettacolo), che qui diventa “attore”, serve che esso lavori con lui e quanto di lui è già espresso, significabile e capace di evoluzione. La compagnia dei personaggi interni all’individuo entra in un dialogo silenzioso con quanto è richiesto dalla rappresentazione dei caratteri nel testo drammaturgico; evoca risposte significative (il drama) attraverso il processo dramma terapeutico; si offre quale materiale sensibile ad una elaborazione privata dell’interprete e del gruppo (conscia ed inconscia), alla conduzione del regista; recupera, ma solo simbolicamente, la dimensione autobiografica propria dello psicodramma. Sia che si tratti del lavoro con una drammaturgia classica (recenti le esperienze del CDIOT con Ceckov e Ionesco), che di pieces costruite con e sul gruppo oppure, ancora, di azioni performative informate alla improvvisazione in laboratori aperti al pubblico, l’interprete si trova sempre nella “centralità” di una azione che lo responsabilizza a mediare tra quello che è richiesto dal testo e quanto è significato dall’incontro di questo con la psicodinamica personale e gruppale. In questa ottica così particolare persino l’arresto, la perplessità, la deviazione del desto acquisisce il significato di una produzione personale che definiamo “artistica”, alla stessa stregua di quanto un lapsus ed un sogno indicano della produzione dell’inconscio privato e collettivo. E’ proprio la dimensione archetipale, mitica o conflittuale ad assurgere a elemento significante e le risposte del gruppo, così evocate, costituiscono i drama attraverso i quali è ri-costruita la vicenda drammaturgica.
Questo “conversazione” tra istanze inconscie (singole e collettive) e testo si traduce costantemente in un parallelo dialogo tra i singoli partecipanti del gruppo e con il regista. Anzi, esso può spostarsi molto spesso anche fuori del recinto della piece, giungendo a produzioni fiabesche ed oniriche, proprie degli stati modificati di coscienza, che hanno per oggetto un racconto personale, una speculazione privata “restituita” al gruppo ed al regista.
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